30 marzo 2012

Le persone sono posti (o forse viceversa)

Le persone sono posti.
Condividere tanti posti insieme è una misura di importanza, certo, ma non c'è solo quello. È anche una questione di intensità.
Le persone sono posti. A cui regalano colori, profumi e sensazioni di pelle.

Sono gli occhi lucidi di quel giro di Milano - una Milano che è quella Milano lì, che mai si è sovrapposta a tutte le altre Milano che ho vissuto - che precedeva una domanda grande.
Sono sorrisi di denti bianchi su un cavalcavia a guardare grattacieli in costruzione, con l'aria che accarezzava braccia troppo nude per quella stagione, e quegli occhi che si spostavano - che non potevano fissarsi a lungo altrimenti chissà - e sempre quella domanda, quella domanda sui grattacieli, come una parola d'ordine che dava il via a quel concetto di "noi" che si era noi su quel cavalcavia più che altrove.
Sono il ricordo che mi ha lasciato addosso quella sera d'inverno con i tram arancioni che passavano e quell'addio che mi sembrava feroce, inaspettato, cattivo, con le luci gialle dei lampioni di Milano che se ne stavano lì a guardarmi, rese morbide dalla nebbia sì, ma così in contrasto con la durezza di quelle parole da renderle ancora più dolorose.
Le mie amiche sono tanti posti, una cucina con tavolo in legno coperta di libri dell'università, un ufficio bianco e acciaio dove ci si scambiavano i primi sorrisi complici, uno scantinato - elegante ma pur sempre scantinato - dove tra un lavoro e l'altro si cantava "t'appartengo", un parcheggio grande e vuoto dove si sentivano i Queen dall'autoradio e li si cantava tutti ché "come le sappiamo noi le canzoni dei Queen nessuno mai, guarda". Amiche - ognuna con la sua faccia - anche un traghetto a caso per le isole greche, un altro ufficio di complicità-cameratismo-sorrisi e percepirne il vuoto quando poi in quell'ufficio resti sola, un divano blu angolare morbido di confidenze a raccontarsi le ultime cose o i ricordi, con le teste appoggiate sulle ginocchia, sopracciglia da definire e capelli lunghi e lisci (ovviamente non miei) da spazzolare, c'è chi è stata Corsica e poi più niente, e chi cinque anni di liceo - un posto moderno di cui i dettagli sono sfumati - con accanto una Lara insicura-acerba-inconsapevole che poi sarebbe diventata grande.
Ci sono persone che saranno sempre quei gradini di fronte a quel bar, saluti stentati, sorrisi appena accennati e quel senso di gruppo che in provincia è più forte.
Ci sono i bambini del condominio che ovunque andranno saranno sempre quel grande prato con la grata in mezzo e le ginocchia sbucciate.

Mia mamma è tanti posti ovviamente, ma soprattutto la cucina della casa dove sono cresciuta e dove ha raccolto confidenze, lacrime, insicurezze, progetti, sogni, e anche tante parole inutili e scoordinate.
Mio papà è l'azienda dove ha lavorato per una vita intera, ed è casa nostra, ed è il suo grande campo verde pieno di piante da fiori e da frutta, il viso soddisfatto di chi finalmente in gesti elementari vede il risultato dei suoi piccoli grandi lavori.
Mio fratello è la nostra camera, in comune - motivo di litigate furibonde su tutto e di più ché la porta io chiusa e lui aperta - ma è anche stazioni e aeroporti in cui l'ho accompagnato e studi medici dalle risposte incerte.

Milano è grande, è piena di posti, eppure è piccola, la giri tutta in poche ore, e io non ce la faccio a mescolarne i significati, ho un grande rispetto dei posti che sono le persone, e quando ci passo penso a loro, e non potrei mai - MAI - sovrapporre il posto di una persona con il ricordo di un'altra. È una forma di rispetto che non si può sentire da fuori eppure lo saprei io, di tradire un posto sovrapponendo una faccia nuova a quella che a quel posto ha dato un senso - un nome - un colore.

Le persone sono posti. I posti sono persone. Io mi innamoro dei posti quando ci sto bene, quando in quel momento sento tutto, l'aria, il profumo, il rumore di sottofondo, la voce di chi mi parla, e guardo, e vedo, e gusto tutto come un sapore forte e buono sulla punta della lingua.
Adoro i miei posti.
Adoro le mie persone.
E in fondo è un po' la stessa cosa.

27 marzo 2012

Dance your life out (tu chiamalo se vuoi coming out)

La prima volta, una vita fa, che Lui è entrato e mi ha visto farlo ha inclinato la testa di lato e mi ha guardato per un po'. Non me ne sono accorta subito, e quando ho notato la sua presenza ho retto il suo sguardo, imbarazzata certo, ma come fosse una sfida. Se avessi iniziato a riderne io, Lui avrebbe pensato di essere legittimato alla presa in giro. E invece, neanche a dirlo, ha capito.
"Ti lascio da sola". Un filo preoccupato, ovvio, ma tanto doveva solo aggiungere una cosa in più alle mie stranezze. Per dire quella stessa mattina avevo parlato da sola per mezz'ora.
Ha capito che c'è chi corre, chi tira di boxe, chi fuma una sigaretta, chi ci beve su, chi disegna (Lui), chi scrive, chi salamadonna.
E c'è chi balla.
Io ballo.
Lo faccio da sempre.
Quando avevo il pianoforte in casa alternavo le due cose. Ora ballo, e basta.
Mi chiudo in una stanza, le cuffie nelle orecchie, la musica alta, le atmosfere diverse e ballo via i miei pensieri.
Non voglio essere vista. Non voglio essere interrotta. C'è tutto un mondo da sistemare in quella stanza con me, può volerci una canzone o cento, ma muovermi, pensare, rimuginare, saltare, mi aiuta a mettere a posto i tasselli del puzzle. Poi mi sento meglio.
Onanismo musical-ritmico.
Ognuno ha le sue.
Certo io ne ho parecchie, ne convengo, ma ognuno ha le sue, comunque.

Ballo via le persone che non, i fantasmi di ieri e di oggi, le situazione che non voglio affrontare, i piccoli problemi, le tensioni da mamme dell'asilo, i malesseri, il malumori, i cattivi pensieri.
Avere due bimbi in questo senso aiuta: ti consente di ballare come non oseresti mai con la scusa che lo fai per farli divertire, e invece. Ballo molto con loro. Ballo molto da sola. Ballo molto con Lui.
A casa Zeta si balla, voi fate un po' come vi pare.

A proposito: voi com'è che fate?

24 marzo 2012

Amiche

Le mie amiche.
Quelle storiche, quelle maiuscole, quelle che ci sono sempre state, in sottofondo rispetto a tutte le altre che andavano e venivano. Si potrebbe scrivere un libro sulle mie amiche. Ma in fondo tutti abbiamo un po' questa sensazione di aver fatto un pezzo di strada con persone talmente speciali, da non crederci che per una volta il culo di incontrale, quelle persone speciali lì, sia toccato proprio a noi.

Come si fa a spiegare come sono le persone, le amiche?
Le amiche sono giorni, sono episodi, sono momenti di cuore impazzito, sono mani nelle mani, lacrime, risate, scatole di kleenex e film-piangerò.
Le amiche sono quelle capaci di dirmi le cose dolorose che non volevo sentire al solo scopo di farmi andare avanti, che mi facevano scontrare con evidenze che non sapevo ammettere, che alzavano il sopracciglio all'ennesimo ragazzo improbabile con cui mi accompagnavo, che mi compravano gli spartiti dei Queen che "diventerò una cantante"- ma certo.

Le amiche, quelle con cui riempivo i pomeriggi di libri di sociologia, ciobar e biscotti, quelle con cui iniziavo l'ennesima dieta per poi finire da McDonalds "ricominciamo lunedì, dai", con cui programmavo le vacanze - il weekend - lavitachesognavodabambina, quelle che mi hanno vista ridere di pancia e piangere disperata - a volte per lo stesso motivo, quelle che mi regalavano la penna stilografica con l'inchiostro azzurro che "dovrò firmare le copie del mio libro"- ma certo.

Le amiche sono quelle con cui ho ballato, e abbiamo ballato veramente tanto, ballato per gioia, per festeggiare, perché ballare-siamo-noi, per disperazione, per dimenticare, per "no, tu stasera esci, molla il barattolinosammontana che andiamo al Rolling Stone".
Quelle con cui se parte la canzone giusta è un attimo che abbiamo ancora vent'anni, quelle che venivano ai miei saggi di pianoforte e io ai loro di danza, quelle che mi facevano da alibi e copertura per situazioni che ciao, quelle che mi compravano i colori a olio nella fase "sarò una grande artista astratta" - ma certo.

Le amiche, con cui consumi tutti i sms disponibili di fronte all'ultimo programma di trash televisivo o quelle capaci di mandare messaggi che non stanno né in cielo né in terra per contenuto-tempismo-logica-destinatario, che incassano i miei sfoghi facendomi da punchingball-da carezza-da spintone-da "dove ti è finito il cervello?", che ti fanno ammettere cose che neanche a te stessa per poi finire a parlare di smalti e borse, quelle che "e se mi dessi alla scultura?" "adesso basta, Lara".
Sono quelle con le quali di fronte ad una birretta si fa involontariamente a gara a chi parla di più, quelle che sento al telefono nei lunghi viaggi in auto da sola, quelle che mi facevano l'occhiolino, commosso, lungo la navata che ho percorso in bianco, quelle che c'erano a guardarmi con la pancia abitata ché diventavo mamma.
E poi quelle con cui ho lavorato e mi hanno dato rigirate e carezze in egual misura a seconda dei momenti, quelle capaci di incoraggiarmi per il mio solito sogno nel cassetto (anch'io con il loro), quelle che sono così smaccatamente parziali che alla fine ti trovi a difendere chi fino ad un minuto prima stavi insultando perché la loro furia nell'attaccare chi ti ha ferito è implacabile ai limiti dell'imbarazzante.
Quelle che mi hanno vista diventare grande, sapendo che da qualche parte dentro sono sempre quell'irrequieta del cazzo "che sa sempre cosa non vuole e mai cosa vuole" e quelle che ho conosciuto nel modo meno ortodosso e sono diventate comunque dei capisaldi.

Le ho viste anch'io diventare grandi, crescere, sposarsi, fare figli - non volere figli - non poter avere figli, investire su carriere stellari, su se stesse con progetti funambolici, le ho viste prendere case-mariti-scarpecoltacco12, assumere tutti i colori cangianti che esistono al mondo e alcune le ho viste andare lontano ma diograzie ci sono le nuove tecnologie.
E ci parliamo, ci lamentiamo, e "signora mia", e continuiamo a ridere tanto, di gusto, innanzitutto di noi, dello scarto tra quello che sognavamo di diventare e quello che siamo, perché è un risultato che comunque ci piace per quanto diverso, e quindi sì, ci si può ridere su, lamentarci, parlare e "signora mia".
Non ci vediamo spesso, io e le mie amiche, tutte trafelate con la vita che esplode di cose da fare, e cosa vuoi farci, si rimanda, si procrastina, ci si sente "sì dai vediamoci presto, ma sole, io e te", ma poi alla fine niente, quello basso si ammala, quello alto parte e tante serate programmate finiscono in un niente di fatto.
Eppure io ce le ho presente tutte, loro che c'erano, che ci sono, che ci saranno sempre nelle forme diverse che le nostre vite reciprocamente ci permetteranno, ma comunque vicine-vicine-vicine-vicine...
Le adoro, le mie amiche, sì.

22 marzo 2012

Spingendo il cuore più in là

L'hanno definito in molti modi, alcuni decisamente più felici di altri. Gli hanno detto che è grande, crudele, disperato, immenso, meraviglioso, eterno, davvero gliene hanno dette di tutti i colori. L'hanno coperto di aggettivi e di sostantivi che seguivano il "è come", forma descrittiva che personalmente detesto, ma che vuoi farci.
Non è che tutte le definizioni siano riuscite, anzi.
Oggi mi sento di abbracciarne una, che è forte, che sa di lotta, che sa di convinzione in un'idea, che ha il sapore di un fine superiore, che ha il volto di chi ci crede ancora e ancora. Ché io tifo per chi resta, chi combatte, chi non si arrende, chi non smette di crederci.
L'amore è Resistenza.
Potere a chi ci crede, e resiste, e avanti.

18 marzo 2012

domenicaèsempredomenica

Domenica che inizia con Lee che mi chiede di staccarle il dentino davanti, traballante, e mentre lo faccio mi accorgo di nuovo che è grande, e che il tempo sta volando, e che però - dannazione - sono le seietrenta di mattina. I risvegli stiracchiati e gatti sul lettone, ormai in tre, manca poco che ci raggiunga anche il quarto e ci investa con il suo solito tir di parole ripiene di sogni e di notte, e infatti eccolo lì, con i piedini nudi, i capelli da matto, gli occhioni grandi e azzurri e quel sorriso che te lo mangeresti.
"Andiamo a trovare qualcuno? Qualcuno senza figli?", alle sette di mattina di domenica, svegliati controvoglia e controtempo, riusciamo a raggiungere punte di sadismo che mai. Che poi ovviamente restano pensieri, basta riavvoltolarsi dentro il piumone e chiedere "ancora cinque minuti", mentre fioccano copiose le richieste di aiuto e di attenzione da parte di quelli bassi.
Ancora sul letto, a strappare gli ultimi minuti ad occhi chiusi, facciamo programmi al condizionale "potremmo fare-andare-vedere" che sappiamo non prenderanno mai forma concreta.
La colazione in quattro, una rarità, tre seduti e Lui in piedi a stare dietro alle richieste di tutti, "mi passi questo-quello-quell'altro", mentre io dondolo avanti e indietro ripetendo una sola parola: caffè.
Domenica di pigiama costante, neanche lo sforzo di decidere cosa mettere, domenica senza reggiseno perché così è più domenica che mai.
Domenica di freddo, neanche a dirlo ho appena mandato tutti i cappotti in lavanderia, e quindi si sta in casa che i bambini sono a tanto così dall'ennesima otite ma non si può fare rumore ché altrimenti poi arriva "aSilviapiacedormire" del piano di sotto. Si cercano giochi, si parla, si ride, Lee nasconde il vuoto del dentino caduto, e io la guardo e trovo che non abbia mai avuto un sorriso più bello di ora, con quel niente lì davanti e il suo faccino di pensieri densi e sereni.
Domenica di pennarelli, tutti sdraiati in terra, ognuno con il suo foglio, Lee scrive, Roo colora disegni fatti da Lui (e voglio un missile, e poi una jeep, e poi una moto, e una betoniera), io disegno animali buffi e frutta e scrivo il mio nome, mi è rimasta questa cosa di quand'ero piccola che lo scrivevo davvero ovunque.
E poi gli acquarelli che se c'è un giorno in cui hai il tempo e il modo di usare i pennelli e soprattutto di ripulire dopo, ecco, perché non farlo? Tutti i fogli A4 ad asciugare appoggiati come panni sullo stendino svuotato, è più bello il mio - no il mio - ma è vero che chi arriva secondo è primo? EH?
Domenica di puzzle e Lego, che devi riempire la mattina e poco importa se la casa era in ordine, non si può stare a lesinare sui giochi tirati fuori, quindi di nuovo lì in terra a sistemare pezzettini colorati, con la radio in sottofondo e i bimbi che ogni canzone è buona per ballare, "scusate, ma per caso non è che ci date una mano?" "il caso non esiste" (Kung Fu Panda docet).
Domenica di torta al profumo di arance a litigarsi in quattro l'impasto crudo che resta sul fondo della ciotola dopo l'infornata.
E poi vestiti piccoli e grandi da stirare, la mamma si abbruttisce quando stira - è vero - chiudiamo la porta (no ma invece, stirare voi pare brutto?). Metto la musica alta in cuffia e ci ballo su, ballare e stirare non sono due occupazioni che vanno molto d'accordo, il risultato è quel che è ma vuoi mettere il buonumore?
Domenica di "cucina Lui" - io ho stirato, quindi mi pare il minimo - e in quattro a tavola alla stessa ora è una cosa che in settimana mai, e tutti vogliamo parlare, e dire, e chiedere, e raccontare, dovremmo istituire l'alzata di mano.
Domenica di libri piccoli da leggere e di tivù tenuta bassa, mentre ci addormentiamo tutti sul divano, una gamba di Roo sul mio collo, Lee di traverso sopra tutti, braccia sparse in giro ma va bene così, la pennichella dovrebbe essere patrimonio dell'umanità.
E poi la merenda, i giochi ancora, le sigle dei cartoni animati anni '80 da vedere su youtube nel computer di mamma (dopo che io e Roo in cinque minuti netti dall'accensione abbiamo bruciato il Suo - ciao), e le partite di cui vedere la sintesi, e - cosa faccio per cena? - sono le tre, Lara, possiamo pensarci più avanti?
E i bagnetti da fare verso sera - mi porti le Barbie - le macchinine - i cavalli - i playmobil, mentre cerchiamo di ripescare in mezzo alla schiuma qualunque cosa si muova per risciacquarla e tirarla fuori, il bagno che sembra un soap party. E i capelli da asciugare, pigiamini da mettere, libri da scegliere da leggere dopo cena e canzoncine canticchiate a fior di labbra.
Domenica di nostalgia che sale mentre la luce scende, ché domani si è di nuovo tutti in pista, tutti in giro, lontani, indaffarati, frenetici, e la domenica sera non sai pensarci, ché sei dentro ad una bolla di sapone e non ti senti pronta a venirne fuori, ad affrontare tutto e tutti, allora respiri, aspetti le sei per aprirti una birretta e ripeti il tuo mantra "andrà tutto bene".
Certo.

16 marzo 2012

Milano al volante

Amo guidare. Mi piace. E mi riesce bene. Sono d'accordo che le donne al volante nella maggior parte dei casi aiuto, ma non rientro nella categoria, perché - diciamolo - sono brava. Ho imparato nel posto più aggressivo d'Italia: se sai guidare a Milano puoi guidare ovunque.
È ovvio che le regole della strada sono le stesse dappertutto, ma a Milano ci sono una serie di fattori di cui bisogna tenere conto:
- Milano è una città fondata sulla frenesia automobilistica
- i pedoni sono esserini fastidiosi che rallentano la corsa ma ogni tanto, diamine, tocca farli passare
- le strisce pedonali poi le hanno messe lì di bellezza che il rigato mi è sempre di moda
- le biciclette - poverestelle - affrontano il loro personale Vietnam ogni giorno per la totale inadeguatezza delle piste ciclabili
- clacson chiama clacson, quindi se uno inizia a suonarti per un qualsiasi motivo è praticamente certo che anche tutti gli altri faranno la stessa cosa: sono momenti bellissimi
- spesso il senso di circolazione di una strada è solo un suggerimento, mica un ordine, mavvà
- la posizione di guida prevede una mano pronta sul clacson e il piede sinistro sempre a un millimetro dallo stacco della frizione
- il semaforo è quella cosa di cui devi tener conto in modo trasversale, cioè non guardi quello che ti riguarda ma controlli quando scatta il giallo per la strada perpendicolare alla tua in modo da cominciare a prepararti allo scatto, anche perché se non scatti, quello dietro attacca la mano al clacson (in genere capita ancora prima che si accenda il verde, 'mbè ci muoviamo?) e parte della tua già labile salute psicofisica va a farsi benedire
- "non farti intimidire" is the new "non fa male"
- "imporsi o soccombere" is the new "ma non ci toglierete mai la libertà"
- il parcheggio comprende lo spazio libero che vedi, a cui devi sommare anche il coefficiente di flessibilità del paraurti delle auto davanti e dietro
- il principio di base è che comunque sia "ti devi dare una mossa", poco importa se quello davanti a te non si è mosso, tu devi muoverti, per forza, o quantomeno fare un po' di rumore, scegli tu come
- sembra che molti ritengano che il clacson possa fare realmente qualcosa per smuovere chilometri di macchine, è chiaro, altrimenti non mi spiego il perché del suonare ripetutamente di fronte ad una coda evidentemente immobile
- se trovi un parcheggio in circonvallazione nell'ora di punta, ecco, quello lì - cara mia - è l'inferno: tutti inizieranno a suonarti e prega di azzeccare subito la manovra, altrimenti abbandona il veicolo e rifatti una vita nel punto esatto in cui ti trovi
- l'insulto regna sovrano e il dito medio fa il lavoro extra: devi solo verificare di avere delle sane vie di fuga nel caso il bersaglio dei tuoi insulti decida di approfondire il discorso
- al semaforo non guardare mai quello accanto a te, è sicuro che si sta scaccolando
- le "questioni di principio - driving edition" sono il male dell'umanità e motivi di litigate in mezzo alla strada che neanche a dirlo rallentano ulteriormente la corsa (perché è di una corsa che si tratta, eh, in cui il premio finale è arrivare a tavola a cena trenta secondi prima ma con un'ulcera così)
- non si fa passare nessuno, ci penserà quello dietro, sia mai che perda quei tre metri di strada e mi sballano tutte le coincidenze
- la fantasia, al netto del tom-tom, raggiunge vette incredibili nel trovare strade alternative che non sono necessariamente più corte o veloci, ma che ti danno l'illusione del movimento: e chissenefrega se per andare da A a B fai 14 km invece di 2, ti stai muovendo e tanto basta
- la fantasia raggiunge vette ancora più incredibili nell'inventare parcheggi dove non ne esistono
- bisogna essere aggressive e territoriali e fare lo slalom tra le varie corsie della circonvallazione per arrivare al semaforo - che comunque prenderai rosso dalle quattro alle sei volte - prima di quella macchina, quella che aprioristicamente e illogicamente hai deciso essere il tuo nemico giurato
- la seconda fila è solo un modo come un altro per parcheggiare, soprattutto con un SUV, tanto hai messo le quattro frecce, no?
- i passeggini sono quei piccoli mezzi fastidiosi che si lamentano del tuo sacrosanto parcheggio sul marciapiede fronte passo carraio
- il parcheggio libero è quello che vedi da lontano come un miraggio per poi scoprire gli ultimi due metri che invece c'è dentro una Smart (%&%@!!"??*%&!!!), e ovviamente in aggiunta ai tuoi santi scomodati si aggiunge l'immancabile clacson di quello dietro di te.

Se guidi a Milano, ti abitui al suo ritmo, poi in tutte le altre città ti sembra che tutti vadano al rallentatore.
Del tipo che tra l'accendersi del verde e la reale partenza della prima macchina possono passare addirittura tre secondi, in cui incredibilmente nessuno suona. E tu anziché goderne pensi "ma dove ca*%o sono finita? A Sonnelino-ville?"

[momento memorabilia] Una volta in Puglia, con le solite amiche, non mi ricordo per quale motivo avevamo una macchina a disposizione. Eravamo ferme a chiacchierare concitate quando scattò il verde. E noi ferme, troppo prese dal discorso. Giallo. Rosso. Ferme, ovvio. Scattò nuovamente il verde e noi anche a questo giro non stavamo dando segnali di volerci schiodare da lì. Quello dietro di noi diede un colpetto al clacson, leggero, elegante, minimalista, si affacciò dal finestrino e con una calma a dir poco zen disse: "Parti, quando ti piace 'o colore".

Capitasse una cosa del genere a Milano ci sarebbe un'esecuzione sommaria sul posto con spargimento delle ceneri in circonvallazione.
Ma vuoi mettere l'effetto drammatico? Son cose.

13 marzo 2012

Grecia

[Prologo] Oggi ero sul treno e dietro di me c'era un gruppo di ginette ventenni che si organizzavano l'estate. "Sardegna, ovviamente. E poi andiamo al Billionaire".
Mi è venuto in mente un altro gruppo di ginette. Un po' diverse, in effetti, sì.


L'appuntamento era piuttosto vago. Il primo agosto al porto di Brindisi. Avevamo già tutte i cellulari, ma eravamo sempre senza un soldo in tasca, quindi centellinavamo chiamate e scrivevamo soprattutto messaggi talmente pieni di abbreviazioni che se non eri del giro era praticamente impossibile capirne il senso.
Ognuna di noi aveva delle "cose da fare" prima, chi esami universitari, chi doveva solo darsi un tono ma di fatto doveva solo aspettare le altre, chi doveva chiudere il lavoretto estivo e farsi pagare, chi aveva flirt da raggiungere in qualche città lontana da Milano, io che tanto per cambiare ero appena stata lasciata da un altro ragazzo avevo scelto un approccio ascetico, andando a trovare la mia insegnante di pianoforte che mi ospitava in una favolosa villa vista mare nel parco del Cilento. Per dire: ascetismo a cinque stelle e con la protezione 30.
Non è che ci fosse un patto preciso, ma l'ultima settimana di luglio la passammo senza comunicare mai tra di noi, ché l'appuntamento era vago, sì, ma chiaro. Solo l'ultimo giorno di luglio ognuna sarebbe uscita dalla sua personale settimana sabbatica per raggiungere le altre sei al porto della città pugliese.
Anche il programma delle vacanze era piuttosto vago: le Cicladi.
Per dire, non è che fossimo proprio le regine della programmazione, ma quando si ha tempo a disposizione, qualche soldo, uno zaino bello pieno e due tende, in fondo quanto contava sapere prima dove saremmo finite? Una valeva l'altra, noi eravamo in sette, i problemi tra sette donne in giro insieme potevano essere catastrofici e non avevano nulla a che vedere con la destinazione o il programma di viaggio.

Considerato quanto eravamo disorganizzate, col senno di poi mi sembra incredibile che riuscimmo a rispettare l'appuntamento. E anche a tornare a casa.

E quindi un porto, sette ragazze con pantaloncini corti, sandali, zaini giganti sulle spalle pieni di vestiti che ovviamente non avremmo mai messo, ma bisognava comunque portarli ché nella vita non si sa mai, una nave che aspettava, "intanto andiamo al Pireo e poi da lì decidiamo bene" - davanti il mare e l'avventura e alle spalle le nostre sicurezze, pronte per tredici ore di traversata e poi chissà.
Io abbracciata alla Xamamina, che avevo già questa cosa di stare male anche quando la nave è attraccata in porto, seguivo le altre nei racconti dell'ultima settimana, e gli sviluppi lavorativi-universitari-amorosi, mentre con la mano sinistra controllavo per le ultime volte il telefono per vedere se per caso quello che mi aveva lasciato non avesse cambiato idea (no, ovviamente).
E poi affacciate al parapetto della nave a salutare, melodrammatiche, mentre la più timida di noi già addocchiava, tra uno sguardo abbassato e una guancia che si colora, chi le avrebbe fatto compagnia per quella vacanza (e per molti anni successivi).
Traversata notturna, ognuna nel suo sacco a pelo, passaggio ponte ovviamente - il più adatto alle nostre tasche squattrinate - a dormire a cielo aperto, in mezzo al mare, con la salsedine che sporcava i capelli e la pelle, ma quante stelle, ma guarda-che-luna-guarda-che-mare, ma cosa stanno facendo quei due là in fondo, dai, davanti a tutti, ma hai mica un biscotto?
Arrivammo al Pireo e scegliemmo la tappa successiva del viaggio seguendo dei ragazzi inglesi - che ovviamente in quel periodo se eri inglese e vagamente carino eri l'uomo perfetto a prescindere - che andavano a Paros.
"E chi siamo noi per non andare a Paros, voglio dire, Paros va vista, no? È interessante, c'è quella cosa, dai, ti ricordi, ora non mi viene il nome, ma insomma non si va alle Cicladi senza vedere Paros, no?". E Paros fu. Quello fu più o meno l'approccio maturo e ragionato con cui scegliemmo tutte le tappe successive: Antiparos, Naxos, Santorini, Ios, Amorgos, Mykonos per poi tornare.
Poco più di tre settimane per fare tutto, i primi giorni eravamo così scalpitanti che non stavamo mai ferme, a bordo di scooter a noleggio, per vedere tutto, per avere tutto, per organizzarci al meglio e non perdere né un minuto di sole né tutto quello che le varie isole potevano offrire. Dopo le prime quattro isole decidemmo che a quella successiva ci saremmo fermate di più a riposare.
Ios.
A riposare.
Certo.
Ios era Rimini ma con il mare bello, sempre la musica alta in sottofondo, sempre qualcosa da ballare, sempre qualcuno con cui parlare, sempre troppe poche ore per dormire. E lì nacquero le storielle, i nuovi flirt, le compagnie che solleticavano l'ego e la pancia in egual misura, stavamo cambiando pelle, ci stavamo rinnovando, ognuna aveva lasciato andare qualcosa, fosse anche solo la speranza di tornare e trovare tutto tutto uguale, e stavamo a guardarci tra di noi con quell'affetto di chi sa che sta vivendo un'avventura straordinaria che difficilmente si ripeterà ancora, così libere, così selvatiche, così finalmente serene al netto di tutto e tutti, solo noi, noi amiche-per-un'estate, abbronzate, belle, protettive, giovani e amiche.

E poco importa se mangiavamo male e quando ce ne ricordavamo.
E poco importa se la tenda "no non la picchettiamo - e se montassimo solo la zanzariera - e se non montassimo neanche quella e la usassimo tipo tappeto - e se invece dormissimo qui in spiaggia?"
E poco importa se "hai finito i soldi, facciamo una colletta e stiamo qui un giorno in più, tutte".

E altre isole, altra acqua azzurra, altro sole, altri scooter da guidare, persone da conoscere.

Non ho più visto tante stelle come in quell'estate.
Non ho più dormito accanto a un piccolo falò in riva al mare che si spegne mentre albeggia.
Non ho più lasciato un ragazzo con il ricordo solo del mio nome e della mia pelle, senza numeri di telefono e contatti futuri di alcun tipo.
Non ho più affittato tetti di case bianche e blu per dormire con trenta gradi notturni.
Non ho più mangiato moussaka.
Non ho più viaggiato con loro.
Non ho più viaggiato con altre amiche così.
Non esistono altre amiche così.
Non esistiamo più neanche noi, ma siamo state quel "noi" per un'estate.
E fu un'estate bellissima.

12 marzo 2012

ET telefono casa anch'io

Sorrido sempre quando un bambino mi parla.
Mi si avvicina N. la migliora amica di Lee: "Lara, sai una cosa? Sabato vado a comprare le scarpe con il tacco". Il sorriso mi si sgretola sulla faccia. Credo che si senta anche il rumore. Perché io non riesco, mai e con nessuno - figuriamoci con i bambini, a dissimulare cosa sto pensando in realtà. Abbozzo un "ah", mentre Roo mi salva in corner combinandone una delle sue, una di quelle belle grosse che richiedono il mio intervento.
Ci avviamo per strada verso la gelateria del dopo-asilo e Lee tutta imbronciata torna all'attacco con il tema preferito dell'estate scorsa: "Quest'estate mi compri il costume con il reggiseno?" "No". Io non sono una che sta molto a discutere, sono cresciuta con questa cosa che quello che dicevano gli adulti doveva essere preso alla lettera, chiedere perché era lecito, ma la risposta il più delle volte non arrivava o arrivava sotto forma di "perché è così". Non c'era altro da aggiungere.
E io sono contenta di un rapporto più confidenziale, più aperto coi bambini, ma non fino ad arrivare al punto che questi possano mettere in discussione qualsiasi cosa venga detta. L'adulto, il genitore per la precisione, è quello che si può permettere i sì e i no senza dover necessariamente dare una spiegazione che molto probabilmente il bambino non ha ancora gli strumenti per capire. Quindi quando Lee chiede "Perché no?" la mia risposta, che non può affondare le radici nella argomentazioni con cui poi investirò Lui al suo rientro, si limita ad un "Perché a me non piace e perché finché non hai le tette il reggiseno te lo scordi" (omettendo "se sei come me dovrai attendere una vita").
Ovviamente arriva puntuale il classico "Ma la mamma di N. glielo compra". Non mi sorprende. "Il mondo è pieno di ingiustizie".

Frequentiamo molti compleanni, per lo più femminili. Il regalo più gettonato di questi tempi è il kit per la mini ricostruzione delle unghie, con tanto di micro-unghiette finte da applicare su quelle vere e colorarle a proprio piacimento. Ripeto: il-kit-per-la-ricostruzione-unghie. E i trucchi. E i bijoux. Non voglio necessariamente demonizzare un gioco. È la cristallizzazione di un ruolo, di quelle che devono essere sempre belle e curate e soprattutto grandi - molto grandi - a non starmi bene. Anche noi mettevamo le scarpe col tacco di mamma, e facevamo finta di essere grandi. Ma, non lo so, mi sembra che ci fosse di base un'ingenuità, una semplicità, una totale mancanza di malizia che adesso non riesco a cogliere.
Anche perché poi hai l'impressione che non è che con questi giochi ci si divertano poi tanto. La riprova l'ho avuta alla festa di compleanno di Lee, a casa nostra. Quintali di Barbie abbandonate in giro a favore del trenino di Roo, del kit Black&Decker di Lee (sì, di Lee), della valigetta del dottore, usando il trapano, la sega circolare, il martello e il cacciavite come fossero strumenti da chirurgo (e Grey's anatomy ci ha insegnato che non è una cosa così strana, tutto sommato). Sai che palle fare le collanine, quando puoi riempire le chiappe altrui di punture o segare un braccio?

Passeggiata per tornare a casa. Si passa davanti ad un negozio che fa tatuaggi, dove G. - altra amica di Lee - attacca a piangere perché lei vuole fare il tatuaggio vero. Quattro anni. Sua mamma le dice "più avanti".

Cioè, c'è qualcosa che mi sta sfuggendo, c'è qualcosa che sto sbagliando io, c'è qualcosa che dovrei accettare, o c'è effettivamente qualcosa che non va? Mi sento come se fossi atterrata da un altro pianeta e sono quella verde con le antenne-le pinne-la coda e parlo una lingua che nessuno capisce. Beam me up Scotty, riportatemi sul mio pianeta, che questo qui non mi piace per niente.

9 marzo 2012

Come si dice addio




Quando si è persone possessive si riesce a essere gelosi di tante cose: libri, frasi, canzoni, persone - ovviamente, colori, posti, espressioni del viso, parole.
Si tiene tutto insieme, come bambini con i giocattoli preferiti, con le braccia che non ce la fanno ad accerchiare tutto e c'è sempre qualcosa che cade, che sfugge, che ti perdi tra le pieghe della vita scalpitante per ritrovarlo poi settimane, mesi, anni, vite dopo e scoprirlo intatto nel suo senso più intimo. Non mi è mai capitato di chiedermi il perché l'abbia perso, momentaneamente accantonato, dimenticato, si vede che doveva andare così; e non mi è mai capitato, nel ritrovarlo, di domandarmi il perché di quel mio amore specifico e incondizionato nei confronti di una cosa che per un attimo, un anno, una vita, è stata così importante. Ha sempre senso quando poi la ritrovo, ci ritrovo il senso di quel momento, ci ritrovo quella che sono stata e che in fondo sono ancora, da qualche parte. Si cambia, certo, cambiano gusti, colori, volti che si hanno accanto, ma non è che si abbandona il resto, è una lunga passeggiata con una valigia sempre più carica e pesante che contiene piccoli pezzettini di te, alcuni migliori di altri.
Difficilmente io abbandono consapevolmente qualcosa, perché non sono capace di chiudere porte e scatole e scrigni segreti senza avere la voglia di sbirciarci dentro un attimino ancora e vedere-toccare-vivere i tesori che contengono, e se ho perso qualcosa è stato solo per ingenuità, distrazione, appetiti instabili e quell'approssimazione che mi caratterizza sempre.
Quindi io non so di preciso come si dice addio a qualcosa che decidi coscientemente di lasciare indietro, per poi magari tornare a riprenderla tra un po' di tempo, dopo che avrai fatto spazio, areato le stanze, cambiato i colori alle tue pareti interiori perché ci si possa abbinare meglio, io davvero non lo so, come si fa? Forse devo solo fare finta di andare e mentre faccio finta convincermene a tal punto da finire per crederci davvero. Ché se lo senti il peso di quella valigia lì, allora forse è davvero il caso di fermarsi un attimo e decidere cosa vuoi portare per la prossima tratta del viaggio. Non è definitivo, poi le cose ritornano e me le trovo di nuovo incollate al cuore come se non mi avessero lasciato mai, però intanto qualcuna la devo lasciare qui.
Le saluto ognuna con una canzone che è stata la colonna sonora del loro momento.
E piango. E rido. E ricordo tutto.
E che belle le valigie pesanti, cazzo.

8 marzo 2012

Chi dice donna è già qualcosa

Io questa festa la capisco poco. E per quel poco che capisco, al di là dei fatti storici che l'hanno generata, non mi piace granché. Perché siamo donne (oltrelegambecèdipiùismo come se piovesse, oggi) 365 giorni l'anno - 366 quest'anno, 24/7.
Quindi perché festeggiarci oggi? Festeggiateci ieri, domani, dopodomani, il giorno dopo ancora, tanto non sbagliate mai, ce lo meritiamo sempre. E lo so che se nego quest'occasione, c'è il caso che non ci venga riconosciuto mai niente. Ma se abbiamo bisogno di una festa perché ci venga riconosciuto qualcosa, abbiamo un problema di vita, in quel caso, da risolvere.

Donne. Sempre.
Quando ce la caviamo da sole.
Quando parliamo durante la partita che volete vedere.
Quando ordiniamo un'insalata e poi mangiamo la pasta dal vostro piatto.
Quando siamo equilibriste e contorsioniste del quotidiano.
Quando riusciamo a parlare per un'ora di fila senza farvi dire una parola.
Quando riusciamo a stare zitte al momento giusto.
Quando il nostro concetto di "viaggiare leggere" riempie il portabagagli.
Quando il melodramma ci scorre nelle vene.
Quando spostiamo i mobili di casa per "rinnovare un po'".
Quando la sindrome premestruale 28 giorni al mese.
Quando amiamo tutto e cinque minuti dopo detestiamo quello stesso tutto che cinque minuti dopo torniamo ad amare.
Quando disegniamo stelline mentre voi parlate di rugby.
Quando il dietor alla fine del pranzo di Natale.
Quando non siamo come le vostre madri e la casa la pulite anche voi.
Quando piangiamo per niente. Quando ridiamo per niente.
Quando urliamo in sala parto. Quando urliamo allo stadio.
Quando vogliamo andare all'Ikea a prescindere.
Quando siamo irragionevoli anche di fronte alle evidenze.
Quando siamo la parte migliore della vostra vita. E la più impegnativa.
Quando con l'armadio pieno non abbiamo niente da mettere.
Quando dobbiamo scegliere tra famiglia e carriera.
Quando leggiamo libri che voi mai.
Quando il film ci è piaciuto perchè "ho pianto tantissimo".
Quando un etto di cioccolato ma poi la colpa del chilo in più è certamente vostra.
Quando vogliamo che cuciniate voi.
Quando i piedi gelati sui vostri, caldissimi.
Quando facciamo quella parte di lavoro nascosto che non verrà mai riconosciuto.
Quando vi abbracciamo forte al ritorno a casa. Quando vi insultiamo forte al ritorno a casa.
Quando vogliamo essere protette. Quando vi proteggiamo.
Quando ci crediamo. Quando smettiamo di crederci e abbiamo bisogno che ci crediate voi.
Quando ci mettiamo il trucco per piacere a voi, ma ci raccontiamo che lo facciamo per noi.
Quando non sappiamo come si usa il crick. Quando le mensole ce le mettiamo su da sole.
Quando ci occupiamo dei bambini. Quando pretendiamo che ve ne occupiate voi.
Quando lingerie da urlo. Quando tuta e scarpe da corsa.
Quando cantiamo canzoni che voi altrimenti non sentireste mai. 
Quando a noi il meccanico fa un preventivo tre volte più alto che a voi.
Quando guardiamo Amici. Quando vediamo amici. Quando vi ricordiamo i nomi dei vostri amici.
Quando cuciniamo per dieci e a cena siamo in due. Quando non cuciniamo niente, "ristorantino?".
Quando vi teniamo tra le braccia. Quando vi teniamo tra le gambe. Quando con le gambe vi camminiamo vicine. Spesso lamentandoci dei tacchi.
Quando siamo affamate, scalpitanti, irrequiete. 
Quando non ci arrendiamo mai.
Quando nonostante tutto siamo donne. Quando grazieadio siamo donne.

Sempre.



[liberamente tratto da qui, chè lei è una gigantessa]

5 marzo 2012

...solo che andavamo via di schiena e incontro a chi insegneremo quello che noi due imparammo insieme (e tutto il testo)

Ci si incontra così per caso, in una giornata di quelle in cui il vento ha spazzato il cielo e il sole sembra farcela davvero. Entrambe in giro per commissioni, trafelate, entrambe con quel profumo che ti lascia addosso il vento e con bambini che scappano in ogni direzione. Ci riconosciamo e sorridiamo, la voglia di salutarci e parlare un po'. Non siamo ancora vicine e ci stiamo già misurando - è più alta-magra-bella di me? Noi donne siamo fatte così, dai sedici anni in poi, inconsciamente o meno misuriamo le altre per capire come sarà la battaglia e cerchiamo piccole sicurezze nelle solite quattro cose elementari. Cominciamo a parlare, che è davvero una vita che non ci si vede, e quella bambina con gli occhi azzurri e grandi adesso ha due anni e io non la vedevo, appunto, da quasi due anni. Ora che è più grande si vede chiaramente: ha la faccia di suo padre, è incredibile vedere la somiglianza di qualcuno che hai amato tanto in una piccola sconosciuta che ha così tanto di lui pur essendo altra.
Io ho di fronte la moglie di quell'amore su cui a vent'anni avrei scommesso tutto. Sono stati due anni e mezzo, un battito di ciglia in pratica, e poi siamo andati avanti entrambi. E menomale.
Mi racconta di lui, parlandomene come se io non lo conoscessi mentre io combatto forte con me stessa per non risponderle con un "lo so" che non farebbe bene a nessuna delle due. Mi racconta spontaneamente della loro vita, io no, io sono introversa (sì, ho un blog, ma non torniamo su quella storia che qui dentro c'è la mia vita, eh). Mi dice com'è vivere con lui, com'è sempre stato con lei, e lì sì che ho l'impressione che stia parlando di un altro. È ovvio, chissà chi è diventato in questi anni al netto di noi, io sono così diversa che stenterebbe a riconoscermi, faccio fatica anch'io certi giorni.
Lei continua a parlarmi con quelle che sembrano essere le parole di lui e io mi trovo lì con la sensazione di chi sa benissimo come finisce ogni frase appena iniziata. Le sue parole mi suonano stranamente familiari, hanno il sapore di quelle che io gli dicevo, invano, una vita fa, per cercare di convincerlo a trovare un punto di incontro tra i nostri due caratteri - il giorno e la notte.
Senza mai riuscirci.
Identiche, testuali, parola per parola.
In differita di una decina d'anni deve aver capito il senso di quelle cose. E non solo l'ha capito, l'ha anche messo in pratica. Ma forse è solo frutto di quel genere di interpretativismo di cui sono maestra, quello del trovare significati anche laddove non ce ne sono, non lo so. So che noi non c'eravamo più.

È strano avere l'impressione di aver lasciato un'impronta nell'anima di qualcuno solo per farlo combaciare meglio con chi sarebbe arrivato dopo. Giochi di equilibri, chiaro, del resto è così per tutti. Le nostre anime sono tutte piene di impronte altrui che ci hanno in qualche modo dato dal forma. Chi a suon di carezze, chi metaforicamente a spinte, schiaffi, calci. Non c'è modo di restare monolitici, impassibili, incolori, stabili, di fronte alla vera condivisione della vita con qualcuno.
Gliel'ho apparecchiato io quell'uomo perfetto-per-lei che ora le vive accanto e lei non lo sa. Non c'è modo che lo sappia, lei lo ha sempre avuto accanto in questo modo, mai diverso, e se davvero lui ha fatto sue le cose che gli dicevo io, non sarà certo stato lì a tributare medaglie e a distribuire i meriti di questa maturazione. Non lo si fa mai. Eppure quanto ci ho pianto, sudato, lavorato, quanto impegno, quanta fatica. Ma quando si arriva dall'altra parte, quando si va oltre, non si sta lì a distribuire grazie a chi ci ha traghettato, a chi c'era a sfinirci, a parlarci, a piangerci accanto, a viverci di pelle, ci raccontiamo tutti che siamo il frutto delle nostre scelte, come se le scelte si potessero fare davvero al netto di tutto, no, non è mai così, eppure niente, si va avanti, spalle contro spalle e ognuno per la sua strada, e chi c'era un attimo prima e non c'è più non conta più niente. Ognuno preferisce raccontarsi di essere l'artefice di qualsiasi cosa, cambiamento, evento, decisione della propria vita.
Quanti grazie dovrei distribuire in giro io, allora? E non lo faccio, mi racconto che la mia vita è per forza frutto del mio lavoro, del mio impegno, delle mie scelte. È giusto, è il modo per rimanere sani di mente, pensare che l'unica cosa che ci ha fatto arrivare dove siamo sia il libero arbitrio, nostro - non altrui.
Ma se c'è una cosa buona, una, l'unica forse, in me, è che io non dimentico niente. Mai.

Il sennodipoi mi trova felice di dove sono ora, eppure vorrei almeno un grazie.
Le pretese.
Il bel carattere.
Quelle cose lì.

Un sorriso, ripensando a quanto eravamo piccoli, io e lui, e ingenui pensando che sarebbe potuta andare diversamente da com'è poi andata.
La saluto, un bacio a quella bimba dagli occhi blu del suo papà, solito respiro profondo.
E avanti.

3 marzo 2012

Sabato

Sabato #1
Sabato a casa nostra non vuol dire dormire. E che ci si creda o no, le sei e mezza di mattina esistono anche in questo giorno. Ora, non so se sia io che voglio cogliere il lato positivo in un risveglio insensato, ma la luce che c'era stamattina all'alba era commovente e sono contenta di averla vista.

Sabato #2
- ... e poi niente, vorrei che un mio libro diventasse un bestseller da milioni di copie.
- In questo momento un analfabeta avrebbe le tue stesse chance.
- Per la crisi dell'editoria?
- No. Perchè per vendere milioni di copie innazitutto bisognerebbe, credo eh - ma magari sbaglio, scriverlo, un libro.
- Quando ti impunti su questi dettagli io non ti sopporto.
- Che vuoi farci, all'università mi hanno insegnato il senso pratico.
- A me no.
- Questo è evidente. Ma puoi sempre prendere un'altra laurea.
- C'è caffè?

Sabato #3
La scorsa settimana ero impegnata per il compleanno di Lee e non ho quasi guardato fuori dalla finestra. Ma in questi giorni mi sono rifatta, ho guardato cieli e piante, ho sentito il caldo dell'avere addosso il solito cappotto, ho fatto la prima passeggiata al netto di maglioni pesanti, ho mangiato gelati, ho guardato spuntare colori che mi sembrava di aver scordato. Sta arrivando la primavera. E la primavera è una promessa, è l'immagine di uno scrigno che si apre, è aperitivi all'aperto, è città che si lasciano camminare, è sedersi su una coperta in un parco e lasciarsi inondare dal sole e dall'ozio, è una musica allegra che riempie l'aria, è la voglia di fare progetti piccoli e grandi, è il sole che ce la fa, è le braccia nude, è weekend fuori porta e piccole gite. La primavera distende, ci si stiracchia per vedere se tutto funziona ancora, ci si allunga - muscoli e tendini, si fa battere il cuore più forte, si ricomincia a muoversi bene, si pensa alto. Amo.

Sabato #4
- È pazzesco quanto poco ci siamo mischiati io e te.
- Nel senso di?
- I nostri figli. Non hanno preso da entrambi, è evidente che lei ha preso da me e lui da te.
- Vero.
- Quando la guardo vedo gli stessi limiti e difetti contro cui ho lottato io. Quando guardo lui vedo gli stessi limiti e difetti contro cui avresti dovuto lottare tu.
- C'è ancora caffè?

Sabato #5
È sabato, è quasi primavera, ci sono mille cose da fare, la casa è da riordinare, e c'è la spesa, e le cose da stirare, e amici da vedere, e le biciclette da preparare e i balconi da sistemare. Comincio da una corsa, tutto il resto poi con calma.

1 marzo 2012

Errare

Io sono una che sbaglia. Sbaglia spesso. Sbaglia forte.  
Cerco di mantenere la china di una vita ragionata e razionale, il che mi esime dal fare le grandi cazzate che mi sono concessa in passato. Ma di fondo io sono geneticamente portata all'errore. È come se mi ci avvicinassi al rallentatore, mi rendo perfettamente conto che sto per sbagliare ma non posso fare a meno di.
Quindi io capisco le persone che sbagliano. C'è un che di drammatico nell'inevitabilità dell'errore, ci si sente eroi al contrario destinati a fallire e fallire e fallire ancora con la colonna sonora stonata di momenti di gloria, suonata con quell'effetto che ha il 45 giri messo sul 33.
E lo so che questo mondo è per i giusti, i perfetti, quelli con la riga da parte, quelli sempre sul pezzo, quelli con la battuta pronta, quelli con i vestiti ben stirati, quelli con pagella massima, quelli che "carissima!", quelli con le mani fini, quelli che sanno sempre cosa dire e cosa fare, quelli cresciuti a pane e galateo, quelli con l'intelligenza superiore, quelli che sono l'emblema della giustizia, quelli con le verità in tasca, quelli che in tasca hanno sentenze pronte per tutti. 
Ma io provo una gran tenerezza per chi sbaglia, invece, perchè io sbaglio spesso e volentieri e so quanto conti in quei momenti avere di fronte qualcuno che capisca cosa voglia dire "non poter evitare di fare cazzate".
Niente, volevo solo dire che io so ascoltare chi sbaglia.  Perchè probabilmente ho fatto la stessa cosa o peggio tempo fa. 
Ci vuole una gran pazienza. La giusta dose di disincanto. Un pizzico di distacco. 
E tanto, tantissimo affetto, di quello di qualità. 
Cose così.