15 dicembre 2013

La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone




La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone era una brutta canzone, con l'intro al pianoforte in un mondo di chitarre distorte che era l'unica cosa che musicalmente volessi salvare, ma non importava, quella canzone era un luogo, un'atmosfera, due occhi neri neri in cui entrare e buttare via la chiave e quel battito sullo sterno che non l'avevo mai sentito così forte.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone non era una canzone, erano tasti bianchi e neri che si abbassavano generando suono e ad abbassarli ero io, a casa dei miei, davanti a lui che mi stava a sentire seduto accanto a me sullo sgabello rettangolare del pianoforte, e quello spartito che lui non sapeva leggere ma sapeva sentire, e le sue mani che mi accarezzavano le braccia e il collo per la prima volta mentre io cercavo di tenere il tempo con quel battito forte sullo sterno che mi dettava il suo, e tremava Beethoven solo un dodicimiliardesimo di quanto tremavo io.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone ci ho fatto sopra l'amore tante volte da diventare parte stessa dei gesti che l'accompagnavano, al punto da non riuscire più a separare una cosa dall'altra, col battito sullo sterno, e sempre sullo sterno la sua mano a sentire quanto forte stavo sentendo tutto.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone l'ho ballata su un ponte con una città a fare da testimone e mani che si sfioravano perché non potevano fare altro che sfiorarsi - non prendersi, non afferrarsi, non stringersi, solo sfiorarsi - e la sua voce all'orecchio e degli altri occhi neri neri a scavare dentro i miei chiari, e il battito forte sul mio sterno che faceva a pugni col battito forte sul suo, cuore a cuore, non so chi abbia vinto, credo non io.
La prima volta che mi sono innamorata dentro un canzone era un'estate calda e chilometri da macinare in macchina, e il mio gomito fuori dal finestrino, la gonna leggera, con le gambe facili da risalire con gli occhi e con le mani, e le sue mani sul volante con gli avambracci forti, e fermiamoci a fare l'amore.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone l'ho cantata di voce forte a far salire ancora un po' quel battito sullo sterno, che già aveva preso un ritmo che non era più mio ma suo, suo di lui, suo di quel luogo che era quella persona, suo che poi mi dicevo se lui se ne va si porta via il battito e io muoio e invece no, se n'è andato e io non sono morta, ma per molto tempo ho dovuto eliminare tutti i suoni per dimenticare quello.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone io ero quella in abito lungo in un video di quattro minuti e quella canzone è tutta quella giornata e tutte quelle che sono seguite.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone erano canzoni, colonne sonore, suoni che si scollavano dal loro senso per prenderne uno mio, di volta in volta che poi sono state rimosse per tempo, quanto bastava per non dimenticarle del tutto e quanto bastava per non sentire più male, per liberarle di quell'incantesimo che ogni canzone si porta dietro che contiene occhipelleparolesanguecibivociluoghiprofumi, e tornare a farle vivere in un modo diverso che ha sempre il sapore della nostalgia, perché se una canzone è diventata un luogo dentro cui ti sei innamorata non potrà mai più tornare a essere altro, non ritroverà mai più la sua origine pura di canzone-al-netto-di-te, al netto di quella te che sei stata almeno una volta, almeno per cinque minuti.
La prima volta che mi sono innamorata dentro una canzone poi io in quella canzone ci sono rimasta a vivere anche quando lui se n'era andato. Prima se ne sono andate le parole, poi la pelle, poi gli occhi, poi l'immagine del suo viso, poi quel dannato profumo che me lo riportava ogni volta, e poi quella canzone, che se partiva per caso - ed è incredibile quanto ti prenda per il culo la vita quando vuoi evitare certi suoni - io ci tornavo a vivere dentro ogni volta con mani piedi cuore e lacrime.

Sono stata in tanti luoghi, ho conosciuto molte persone, ho amato-mangiato-cantato-ballato-sentito molto, moltissimo, mi sono innamorata dentro molte canzoni, ed è stata la prima volta, ed è stato per sempre.

4 novembre 2013

(estemporaneo e senza titolo)

Ma parliamo un po’ di me, per favore, che non lo faccio da tempo.
Ho il carattere che ho e si tratta per la maggior parte dei momenti di un carattere bruttarello. Melodrammatica, polemica, teatrale, a tratti vittimista, impulsiva, vendicativa, sommaria, pessimista.
Ma il carattere è una cosa, l’essere è un’altra, il primo è solo la superficie, l’aspetto esteriore di qualcosa che è sempre molto più grande molto più complesso, stratificato, colorato, l'essere appunto, e no, non ci trovo nulla di incoerente nella consapevolezza di avere un carattere di merda e di essere una persona che si piace.

Quello che tu vedi è quello che non ti impegna.
Quello che non vedi (ciao, tu) è quello che ancora non sai, ma ti chiederà la pelle.

Sono fatta come sono fatta, mi piaccio, credo di essere speciale (lo crediamo tutti, no?), di poter fare la differenza nella vita delle altre persone. Che ci sia o che non ci sia sposta le cose,  deve spostarle, non “è lo stesso”, non “è uguale”, non è “come vuoi”, non è “come ti pare”, non è “fa niente”.
Fa la differenza. Dovrebbe farla.
Poi uno può anche scegliere di non volerla quella differenza, ma se la scegli devi notarla.

Ma esserci come mi piace esserci nella vita delle persone ha un costo in termini di impegno, di energia, di investimento emotivo, fisico, psicologico, ci vuole impegno per stare accanto alle persone come intendo “stare accanto alle persone”, e - attenzione - è qui la notizia: non è gratis.

No, ma quali soldi, vi piacerebbe se fosse così semplice, soldi, che banalità, no, qui c’è una bilancia molto cinica, che misura anche le frazioni infinitesimali del mio essere e del mio dare, chi ha mai detto che fosse gratis?, io voglio indietro altrettanto.
Non nella stessa forma, ognuno restituisce come può, vuoi portarmi a fare un giro in bici, farmi l’amore, guardarmi negli occhi per ore, fare una passeggiata, parlare fino a sfinirsi, sfinirsi fino a tacere, ridere col mal di pancia, piangere con la testa e le gambe, fai come vuoi, ma quella cinica bilancina del cazzo deve andare in pari.

Perché l’impegno io ce lo metto tutto e ce lo metto sempre, ma deve valerne la pena.
Non è facile rapportarsi alle persone mettendo sul piatto tutto quanto e constatare di volta in volta quanti siano pochi quelli che riescono davvero a ricambiare.
Perché non è tanto lo sforzo. È proprio la relazione, la comprensione, l'accuratezza del gesto di ritorno, la mira.
Non tutto quello che arriva lo leggo nella forma e nell’intenzione con cui magari è partito.
Ma di una cosa riconosci il valore solo se finisce a centrare il segno che tu avevi tracciato. Altrimenti è un gesto come un altro di cui non coglierai il senso fino in fondo.

Non è facile neanche passare per la cinica stronza che misura il dare e l’avere come se fossero quotazioni di borsa.
Ma io la sento la fatica dell’impegno, dell’esserci, del viversi fortissimo e a tutta velocità, del metterci dentro sangue-fegato-cuore-muscoli, e se per te non fa la differenza allora non mi avrai, e se tu non sei in grado di ricambiare allora non ci sarò, e se sei talmente idiota da rinunciarmi, quella è la porta e una volta fuori non c’è verso di rientrare.

Non mi giudicate. Siete come me.

26 settembre 2013

Il giorno-uno

Non sono pronta ai giorni "uno" dell'iniziare a contare qualsiasi cosa.

Non sono pronta a quell'ondata di cose nuove, privazioni e mancanze in genere, che ti si rovescia addosso, quando finalmente dopo tanto procrastinare ti decidi a sfondare quel vetro che ti separa da qualunque cosa ti sembri di non raggiungere - persone, obiettivi, serenità, benessere -  salvo accorgerti che eri sott'acqua e che ora che hai sfondato il vetro stai annegando.

Non sono mai pronta ad affrontare quella mancanza di respiro, quell'affanno, quella sensazione di non farcela, di voler tornare al momento prima.

Che sia una dieta, una corsa, smettere di fumare, smettere dei gesti, quanto cazzo è difficile smettere dei gesti che ti sono così radicati da averti scavato un solco nel modo che hai di muoverti, quanto è difficile cambiare, anche quando lo sai che poi starai bene, che diventerai nuova, che imparerai altri gesti che ti scaveranno un nuovo modo di muoverti, che inventerai nuovi pensieri che ti diranno in che modo pensare queste cose nuove che farai, è difficile, è difficilissimo, perché oggi stai al giorno-uno e non ne sai proprio niente di come starai, sai solo che ti fa male tutto, ti manca tutto, a cominciare dal respiro, sai solo che ieri stavi meglio di così, e lo sai che poi migliorerà, ma in questo momento stai solo di merda e non sai neanche più come respirare e vorresti solo tornare indietro, a un attimo prima un attimo ancora.
E non c'è modo di saltarlo quello stramaledetto giorno-uno, non è che puoi dire "mi metto a dormire e ci penso domani che sarà il giorno-due", noooo, magari funzionasse così, il giorno-uno lo devi vivere, lo devi attraversare, piano, a passo di formica come quando da piccola mettevi il tallone di un piede davanti alla punta dell'altro, a misurare distanze, a camminare lenta, il giorno-uno è così, lo attraversi piano mentre ti lasci attraversare da tutte quelle cose forti fortissime che ti travolgono e devastano l'ordine almeno apparente che ce l'avevo qua un attimo fa, cercando di arrivare in piedi al giorno dopo senza vanificare quello che hai già fatto e sentito. Del male, perlopiù.

Io non lo so vivere il giorno-uno di niente.
E so che poi c'è il giorno-due, che non c'è due senza tre e il quattro vien da sé, ma quel dannatissimo numero uno che devo attraversare piano, io non sono mai pronta a farlo.
Non ho voglia di sentire.
Non ho voglia di superare.
Non ho voglia di smettere.
E invece.