24 aprile 2012

Che ci fai tu alle parole? Ci balli. Le balli. (cit.)

E poi dal niente mi arriva un regalo che non mi aspetto, che è il regalo di qualcuno che mi conosce meglio di quanto io. Ed è un libro. Trovo che regalare libri a qualcuno sia sempre un atto coraggioso, ma quando il regalo riesce - e riesce così bene - è indice di una sintonia di pensiero che puoi solo sorridere.
E quindi ho iniziato a leggere questo libro. Che finirà dritto dritto sulla mensola dei libri che io. Perchè è un libro fatto di parole, e questa di per sé non è una novità, se non fosse che questo libro con le parole ci fa dei numeri da giocoliere-con-milioni-di-palline. E le getta in aria, le riafferra, ne aggiunge di nuove, e ci fa acrobazie, girotondi, capriole, balletti. Ecco, "balletti".
È successo che questo libro mi è arrivato in un momento in cui non sono particolarmente ispirata. Non ho velleità artistiche di chissà che, ma scrivere mi piace e mi fa stare bene. E in questo periodo io non. E se scrivere ti fa stare bene, quando sei in un periodo che non, ecco, stai meno bene. È come se le cose possano esistere in modo più forte-bello-intenso solo dal momento che ne scrivi in prima persona.
E anche lì, qualcuno che mi conosce mi ha scritto che evidentemente io e le mie parole siamo solo un po' stanche. Mi ha anche scritto la frase del titolo che mi è arrivata dentro e mi sta ricolorando le pareti piano piano come miele in un barattolo inclinato.
Non lo so, sto leggendo questo libro che io, e faccio un bagno di parole bellissime, inventate, colorate, triplocarpiate, danzate, e mi ci immergo e ci nuoto, le suono e le ballo, e spero che qualcuna mi resti appiccicata addosso.
Perché questo libro è geniale, racconta una storia che sarebbe anche banale se non fosse che la racconta in 99 modi differenti, e in ognuno riconosci la voce, il colore, la faccia, l'espressione, il tono, riesci quasi a immaginarne gli abiti. È quello che ho sempre pensato, ché quando leggi qualcuno che è capace ci senti dentro la sua voce. E se è capace davvero, quella voce diventa un po' anche la tua.
Mi era già successo con Paolo Nori. Avevo letto un suo libro, mi era rimasto attaccato un po' sulle mie parole, e poi avevo scritto questo.
Qui invece siamo alle olimpiadi della polifonia vocale. 99 stili diversi che ballano la stessa cosa, ognuna col suo carattere marcato e intensissimo, ognuna capace di renderla una cosa diversa, solo attraverso il potere della parola. Lo trovo magico. E bellissimo.
Insomma, io intanto lo leggo.
E se ho finito le parole forse è solo il momento di inventarne di nuove.

[Raymond Queneau - "Esercizi di stile"]

22 aprile 2012

Chester

E poi è successo che a sedici anni ho fatto una vacanza studio.
In Inghilterra, ché "l'inglese è importante e va imparato bene, e quindi no, non andrai come tante tue amiche in uno di quei college in cui finisci che parli solo italiano, no, tu vai in famiglia". E la mia amica A. ovviamente con me, in un'altra famiglia a trecento metri da dove stavo io, in Belvedere Drive - prometteva bene.
Chester più che una città per me fu un'esperienza. Lontana da casa, lontana dai miei genitori che per aggiungere chilometri a chilometri avevano deciso che nel frattempo sarebbero andati al mare in Sicilia, con quell'ottimismo di chi sa, o comunque spera fortissimo,  che andrà tutto bene.
Chester, io lontana, in un periodo in cui le comunicazioni non erano così semplici come ora, c'erano i telefoni fissi e gli orari a cui chiamare per essere sicuri di trovarsi in casa, e ci si chiamava poco ché la tariffa internazionale costa, e io ho quei genitori che quando parlano in una lingua straniera alzano inspiegabilmente il volume della voce, quindi li sentivo dal di fuori della cornetta di un improbabile telefono color verdeacqua, mentre aspettavo che mummy mi passasse mamma.
La casa, di quelle fatte di mattoncini, con la porta a vetri bianca, moquette ovunque, profumo di pot-pourri, una scala ripidissima che portava alle stanze, la cucina che dava su un giardino da non crederci, con una dispensa piena di marmellata di arance fatta in casa, il salottino per tè delle cinque, tavolini disseminati di cornicette d'argento piene di figli e nipoti lontani, racconti di fantasmi, ci ho passato un mese e mezzo e sono diventata grande. Anzi no, credo di essere diventata inglese, e non solo perchè sognavo in quella lingua lì - quella è la parte più facile, tempo due settimane e capita a chiunque - ma proprio per una forma mentis che per chi viene dalla provincia, e lo fa nell'età in cui tutto viene vissuto in stile "spugna", mi ha aperto i confini mentali, fatto capire tante cose e fatto improvvisamente fare spallucce di tante altre.
Ché a volte per trovarsi davvero bisogna allontanarsi dall'abitudine, dalle certezze e soprattutto dalle aspettative della vita di tutti i giorni, e trovare un posto dove poter dare un colpo di spugna a tutto quanto e ricominciare a scriversi ex novo, inventarsi, provare il lusso di poter essere veramente se stessi al netto di tutto quanto.
Chester, città della crescita, dell'affrontare faccia a faccia la mia alimentazione folle a base di aria, mele, tè e poco altro, presa per mano da una English mummy che considerava gli spaghetti qualcosa che si trova precotto in barattoli di latta e da infilare tra due fette di pane nero. Poi dici non mangi...
Chester, la prima volta che la lontananza fu un alibi per molte cose, la prima volta con una stanza tutta mia con una finestra immensa senza tapparella che si riempiva di cielo e di pensieri, in quel periodo incantato in cui mi potevo permettere di passare del tempo a guardare il soffitto e a pensare quei pensieri adolescenti fatti di confusione, pulsioni, nuvole, smalti per le unghie, aspirazioni e tramezzini.
Chester, le prime birrette, la prima volta che ho visto qualcuno picchiarsi davvero, la prima volta in cui una piccola voce dentro, dopo il turbinare della pre-adolescenza, mi ha detto "puoi farcela".
Camminavo per quelle strade affiancate da case che sembravano tutte e uguali e nello stesso tempo tutte diverse; non c'erano le macchine fotografiche digitali, metà dei cinque rullini da 36 erano pieni di foto di case che non ci credevo.
Non so se ho imparato bene l'inglese in quella vacanza. Di certo ho imparato tante cose di me stessa, di come avrei voluto essere, di sogni che prendevano una forma più definita, di voglia di fare-fare-fare, di fame di cibo e di vita in egual misura.
Chester è perfetta  nella costruzione della mia memoria, incantata, sospesa, legata a quell'esperienza rotonda e felice, al punto da avere paura di ritornarci e sovrapporre una nuova esperienza  - che ovviamente sarebbe diversa - a quella già fatta.
Quindi ne tengo le distanze per conservarne il sogno.
Ci sono così tanti posti da vedere, Chester resterà sempre dentro la bolla che fu quel viaggio.
Mi piace conservarla così.

20 aprile 2012

"non può piovere per sempre" - giura.

Piove.
La pioggia, i bordi che si perdono, i vestiti bagnati che restano incollati addosso, i pensieri che diventano nebbia, il morale che scende, la nostalgia di "non so che" che sale.  E dove-sono-i-miei-vent'anni, e sparo sul mucchio, e "melodramma cammina con me". E tutto è messo in discussione, e litigo con chiunque, e ho l'aria pimpante di Leopardi di fronte all'infinito. Sputo sentenze, non mi va bene niente, alzo molte scartoffie, faccio casino, piango col fazzoletto in bocca attaccata alla tenda del soggiorno che Eleonora Duse al confronto era un'attrice comica.
Mi arrabbio fortissimo, me la prendo per cose che non stanno né in cielo né in terra, sono una dannata principessa su questo pisello che è il brutto tempo, che mi rende brutta come lui, anzi peggio, che mica ci accontentiamo dei toni di grigio qui, viriamo proprio al nero e chi si è visto si è visto.
Mi relaziono con le persone come si fa coi punching-ball, e sono irrequieta, e mi muovo, ma non è un movimento bello, non è il movimento di chi sa dove andare ma di chi non sa fermarsi.
Perdo le parole, perdo i confini, perdo anche la piega decente dei capelli.
Poi torna il sole e passa tutto. Giuro. Tutto.
Ma nel frattempo.
Che bella persona che sono, sì.
Scrivetemi qualcosa di bello, voi che "il sole ce l'ho dentro", please.

18 aprile 2012

Sai tenere un segreto?

Un giorno su twitter ho scritto questo:



twitter: @laradiceno
Davvero, era nato dal niente. Solo che ogni tanto vado in giro e vedo gli sguardi delle persone, che sembrano così assorte, così accigliate, così intense nel loro pensare da chiedermi chissà cosa pensa, a chi, perché, chissà se ha un segreto (ma certo, tutti ne hanno) e quale.
E non mi aspettavo di ricevere alcunché. E invece.
E invece tante mail. Ma tante.
E il risultato è che siamo tutti così simili. Ci somigliamo così tanto in quello che proviamo, che abbiamo provato, viviamo o abbiamo vissuto, al punto da sembrare tante maglie di un unico grande tessuto, in cui il presente, il passato e il futuro si intrecciano, e le strade sono tante e ognuno ha la sua andatura, ma sempre di camminare si tratta. Che quello che uno ha vissuto anni fa è forse il presente di qualcun altro. Che i modi di affrontare una fine, una perdita, una sofferenza alla fine sono gli stessi - in cui l'assenza la fa da padrone - cambia solo il modo di percepirsi nella battaglia.
Il che non significa affatto essere banali.
Anzi.
Significa avere il coraggio innanzitutto di ammettere una debolezza con una sconosciuta, perché i segreti sono cose che uno a volte non vuole ammettere neanche a se stesso, sono quelle cose che ci fanno sentire nudi e vulnerabili.
Sono quelle cose che ci fanno sentire, spesso, soli.
Soli con parole che non sai far uscire, soli con sensazioni che credi che non provi nessun altro, soli con quella voglia di dondolarsi fissando il vuoto, che non ne vieni fuori.
E invece siamo tutti così simili. Ci somigliamo tanto.
E allora, immagino una serata in cui trovarci tutti ad un tavolo - ma dai, anche tu? anch'io. giura. giuro - davanti a svariate birre a raccontarci, ad ascoltarci, ad annuire, a piangere, ridere, abbracciarci, ché non siamo così soli come avevamo creduto.
Sarebbe bello.
Io intanto me li tengo i vostri segreti. Me li tengo in un cassetto chiuso a chiave, e vi sento più vicini di quanto non foste ieri. E grazie.

16 aprile 2012

United States of Lara

C'è questa cosa che noi siamo la nostra storia, no? Siamo gli incontri che abbiamo fatto, gli sguardi che abbiamo incrociato, le persone che abbiamo amato, i posti in cui siamo stati, le sensazioni sulla pelle, i profumi che abbiamo sentito, e quel pane, ah-quel-pane, che non abbiamo più mangiato un pane così. Siamo fatti di tessere di un mosaico quante più sono le cose fatte, anzi più che fatte sentite, in costante evoluzione;  le tessere sono in movimento, quello che ieri ci sembrava superfluo può tornare fuori con prepotenza, assumere una posizione diversa sotto la luce e prendere un colore che prima non. È strano pensarsi come fatti di tanti pezzettini che però si muovono, tanti pixel che non trovano una posizione per definire i nostri bordi, ci sono solo poche tessere che tieni segrete, se ne stanno nel punto più interno di te, come l'armellina nel nocciolo dell'albicocca, ecco, ci sono quelle tessere che no, non sveli a nessuno - tante volte neanche a te stessa - e mentre tutte le altre si muovono intorno, spostandoti desideri e confini, resti comunque fedele a quelle che sono la tua vera essenza, se solo la conoscessi.
La primavera è un periodo strano, in cui nelle giornate di pioggia io melodramma-portami-via e nelle giornate di sole sono costruttiva, propositiva, oserei dire ottimista se non stessi parlando di me, e quindi prendo colori nuovi, e la voglia di incontrare delle persone di cui non ho mai sentito la voce anche se mi sembra che sì; le vorrei incontrare per sentirle parlare di loro e di me, per raccontarmi, per raccontare loro i miei colori nuovi e tutti quei pixel in movimento, per cercare di fermare tutto, di fare una foto in un momento - nel momento in cui loro mi guardano, click- e farmelo andare bene, così statico-definito-immobile, che so, addirittura per il giorno successivo. Assumere un colore solo, il colore di quel momento, e non il solito caleidoscopio pazzo che mi sento di essere in questi giorni.
Vorrei che i miei bordi prendessero forma nel loro descrivermi, ché a volte chi ti vede "da fuori" può arrivare a vederti più - boh - vera?, di chi, nel monumentale castello di aspettative e "take for granted" che sono le relazioni, da vicino può perdere di vista.
E mi rendo conto che agli occhi di ognuno assumerei un aspetto diverso, senza per questo essere mai incoerente con ciò che sono; sarebbero infinite fotografie di me, tutte vere, tutte sensate, tutte inevitabilmente parziali. Alcuni coglierebbero delle cose che altri non. Ma sarei sempre io - come tutti eh, sia chiaro - una somma di stati d'animo ed emozioni che spesso faccio fatica a rendere coerente, e mentre mi perdono anche questa dicendomi che "la coerenza è spesso sopravvalutata", mi accorgo che sono fatta di mille colori-pixel-tessere-laqualunque che andrebbero uniti sotto un unico grande stato: Lara.  Ma il federalismo emotivo richiede uno sforzo organizzativo che solo a pensarci mi viene da inventare scuse, quindi mi tengo i miei pixel svolazzanti, le mie tessere che mi cadono dalle tasche e devo fermarmi a raccoglierle tutte le volte, e vado avanti così sperando che la luce mi colpisca nel modo giusto.

12 aprile 2012

Maledetta primavera

Accidenti alla primavera, alla sensualità che spinge forte sugli ossicini e sulla pelle per poter uscire, alla testa che si perde sulle nuvole e ai sogni fatti con colori forti - nessun acquarello da queste parti, colori a olio, primari, poco bianco, colori pieni, noi.
Accidenti alla primavera al mio equilibrio precario su una fila di "quindi?", alla voglia di gridare per poter colorare tutto più forte, alla voce che mi manca o che non so usare bene, e allora canto perché non so parlare, e canto le canzoni che sai anche tu.
Accidenti alla primavera alla voglia di sentirti parlare di me, di sentire come mi inventi, come mi dipingi, come mi colori, come mi scrivi con parole che non si possono dire. È che mi piace così tanto, così-tanto, la sostanza che mi danno le tue parole-di-me, che vorrei solo appoggiarti la testa sulle ginocchia, ascoltare la tua voce e prendere forma.
Accidenti alla primavera alla mia voglia di parlare di te, di ricamarti di parole, di dipingerti di colori, di ricalcarti i bordi, come un dito che segue il corso delle tue vene, e i contorni della tua pelle, ché la pelle è bella perché è quel punto dove finisci tu e comincio io, e a volte è mischiata e i bordi si confondono, e ci si mescola, e allora bisogna premere forte sui bordi per ritrovarsi due, uno, insieme, divisi, quello che vuoi, è un caos immenso, ma un caos bellissimo.
Accidenti alla primavera, al nostro gioco del "facciamo che", ai lenti da ballare, alle lune da guardare, alle birrette gelate, alle parole che inventiamo, che le parole in fondo per noi sono sempre state come i colori, ce n'è un numero infinito, basta saperle mescolare, come ingredienti di una ricetta in cui il risultato è un libro - pieno, folle, lungo, ricco - di io e te.
Accidenti alla primavera, a tutto questo fiorire di colori, al caldo sulla pelle, alla voglia di scoprirsi, di sentirsi vicini, di ascoltare il rumore che fa - perché è un suono preciso - la carezza di una mano sulle spalle.
Accidenti alla primavera, alla voglia che ho di morderti e di mangiarti, che non mi basta vederti, respirarti, toccarti, viverti, vorrei mangiarti proprio, golosa, vorace, di te.
È la primavera, eh, nient'altro. 
Certo.

10 aprile 2012

Eterotopia

Eterotopia è un termine coniato dal filosofo francese Michel Foucault per indicare "quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano".
Eterotopico è, per esempio, lo specchio, in cui ci vediamo dove non siamo, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie ma che, al contempo, è un posto assolutamente reale, connesso a tutto lo spazio che lo circonda.

Non è semplice, ma cercherò di spiegarmi.
Credo che la più grande forma di eterotopia siano le persone, le persone che sono come specchi, che ti rimandano indietro un'immagine di te che non sei tu, è una proiezione, ma è comunque un'immagine reale, che assume una forma in cui finisci per credere, che ti regalano colori e confini e un corpo che non credevi di avere. Esisti nello specchio, che è un non-luogo pur essendo un luogo reale, ed esisti come immagine nell'idea che le persone hanno di te.
Confrontarsi è un po' come muoversi in uno spazio che non conosci, ed è un po' buio, e non si vedono tutti gli spigoli, e devi innanzitutto conoscere le tue misure prima ancora di quelle dello spazio che ti circonda per essere sicura di non sbattere dappertutto a provocarti lividi blu che ti ricordino che no, non sapevi abbastanza di te per muoverti là dentro.
Là dentro è la testa delle persone con cui ti confronti, che ti danno una forma, e te la mostrano e tu non esisti più soltanto per quella che sei e ti ritrovi a vivere sdoppiata, triplicata, quadruplicata, moltiplicata, nella misura in cui ti confronti con gli altri. E allora la sincerità, l'apertura, la trasparenza sono le cose che ti consentono di avere tutto sommato una coerenza tra ciò che sei e ciò che gli altri riflettono di te.
Ma non si combacia mai del tutto.
C'è sempre uno scarto tra quello che tu sai di essere e quello che gli altri percepiscono.
Io poi - che sì va bene ho un blog dove scrivo gli affari miei macheccentra - ritengo di essere piuttosto nebulosa, abbastanza confusa, sufficientemente incasinata e parecchio irrequieta. Ci sono zone d'ombra in cui io stessa non guardo mai, ma stanno lì e ci sono e io le sento, da cui cerco di distrarmi illuminando tutto il resto. E ci sono colori e oggettini di cristallo blu e musica e un gran disordine. E quindi quello che faccio è cercare di tenermi in equilibrio su tutti i miei perché, i miei vorrei, i miei immensi ma.
Poi invece succede che dal niente, da dove meno te lo aspetti, ti ritrovi descritta con delle parole che neanche tu avresti mai saputo usare per te stessa. E ti scopri nuda. Nuda nello specchio che quella persona che hai trovato dove meno te lo aspetti sta usando per rifletterti. E ti ritrovi commossa. Commossa di vedere che qualcuno ti ha capito così tanto leggendoti tra le righe, risalendo con le dita attraverso le tue parole, tracciando il corso di vene e cicatrici per capirti, per sentirti, per descriverti con colori che non osavi. Che non lo sapevi che attraverso quelle poche righe qualcuno, che è così lontano e così vicino insieme, stava leggendo il tuo spartito con un nuovo strumento al punto da suonarti addosso una sinfonia che sembra diversa. Non lo sapevi e questa cosa ti tocca dentro.

Lei mi ha detto tante cose di sé e di me.
Lei mi ha detto che faccio tanto caos che mi serve a funambolare sopra un mare che mi si muove dentro.
E sono tanto più vera nelle sue parole di quanto non riesca spesso ad essere nei miei giorni.
Lei mi ha capito almeno quanto io ho capito lei.
Lei è stata il mio specchio, il mio luogo eterotopico, il mio riflesso più tangibile.
Lei: preziosa.

[grazie].

6 aprile 2012

Aspetto. Cosa? Che passi.

Sono giorni strani.
Sarà la primavera - è sempre la primavera - che crea scompiglio nei capelli e nei pensieri. Sono giorni in cui sto ad osservare il vento nelle sue manifestazioni evidenti di tende gonfiate, gonne e foglie sollevate, cappelli divelti da teste canute, e penso che forse il modo migliore per affrontarlo non è opporsi ad esso ma assecondarlo e lasciargli trascinare via pensieri e parole che non trovano un posto.
Sono giorni di desiderio che brucia dentro gli ossicini tornati a spuntare sotto vestiti più leggeri, di pelle che vorrebbe poter parlare e forse lo fa, giorni di una sensualità accennata che chiede di essere riconosciuta, giorni di un punto preciso dietro l'orecchio che rivela cosa penso più di tante parole. Ma lo rivela solo a me.
Sono giorni che mi sento fatta di una fibra più tenace ma nello stesso momento in cui divento più "corpo" mi sfuggono pensieri che non prendono forma.
Sono giorni in cui guardo il sorriso sdentato di Lee, con un'architettura tutta sua di pieni e di vuoti fatta di tenerezza allo stato puro e ascolto la voce di Roo sempre troppo alta e sempre piena di così tante parole da sorprendermi ogni volta.
Sono giorni che osservo e non parlo, che voglio cambiare tante cose senza far niente di concreto per, un po' sfasata, un po' trafelata - più nei pensieri che nelle azioni - e non c'è verso, non sono ispirata, le parole mi si presentano nella testa in ordine sparso e volano via come bolle di sapone e proprio come queste a un certo punto spariscono e puff! non ci sono più.
Sono giorni di pensieri superficiali, come se mi mancasse la voglia di scavare, di andare a fondo, di cercare sensi e significati in ogni cosa, giorni di una voce più bassa del solito, a produrre suoni più profondi per opporsi a quella superficie così invadente, giorni di gesti lenti e spesso insensati, monologhi interiori che poi però non ricordo.
Pensieri come palloncini che mi sfuggono dalle dita e mi chiedo dove vadano a finire, se esiste davvero un paradiso dei palloncini scappati, allora deve esserci anche un paradiso dei pensieri sfuggiti.
Sono giorni strani. Ho bisogno di musica sempre, non per esaltare sensazioni già presenti, ma per riempire i vuoti tra le idee e anche questo è strano e anche questo non è da me, e chi mi conosce lo sa e mi dice "non è da te" e questa è una frase che a modo suo mi fa sempre sentire un po' nuda perché denota una conoscenza che quando non ti trovi vorresti celare.
Sto seduta e mi guardo intorno ma in realtà niente mi colpisce davvero, come se ci fosse un vetro tra me e tutto il resto, e quindi perché sforzarsi di arrivare a raggiungerlo quando sai che c'è di mezzo quella superficie trasparente sì ma invalicabile?
È come se stessi prendendo il respiro e le misure prima di iniziare una lunga rincorsa per poi spiccare un salto. Spero di fare un bel salto, uno bello lungo, di quelli che poi ti guardi indietro e ti sorprendi, sgrani gli occhi, ridi e gioisci. Spero che "oltre" mi torni quella voglia di morsicare i giorni con la solita voracità che questa afasia primaverile mi ha un po' portato via.
Perché poi passa, passa sempre, passano questi giorni strani e io ritorno.
Questo lo so bene.

5 aprile 2012

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2 aprile 2012

Lei

Da che io la ricordi aveva sempre avuto i capelli bianchi. Ci mostrava le sue foto da ragazza, quelle foto in nero e seppia, con il bordo zigrinato e quelle scritte in corsivo tremolante sul retro con nomi e date, per farci vedere, per farci capire che anche lei era stata giovane e sorridente e, davvero, molto bella. Non era sempre stata una nonna, "capite bambini?", aveva avuto i suoi sogni di ragazza che si sono infranti con la morte del marito in guerra mentre lei già aspettava mio padre. Gli avrebbe passato quegli occhi chiari che poi sarebbero arrivati a me e, poi, a Roo.
Aveva vissuto la miseria, con quel desiderio di rivalsa e di ascesa sociale che però non andava a braccetto con altrettanta voglia di lavorare. Mi ricordo le sue storie, che ascoltavo seduta sull'ottomana di quella casa coi pavimenti a piastrelle esagonali in cotto e sempre qualche gatto sulle ginocchia, mentre mio fratello annuiva e andava all'ultima pagina di famigliacristiana per leggere le barzellette. Erano i suoi racconti fiorentini, di quella città splendida in cui lei era cresciuta, in cui aveva studiato (fino alla quinta elementare - un vanto, ché tutti gli altri si fermavano alla seconda), in cui avevano provato a correggerle quell'assurda ostinazione di scrivere con la mano sinistra, da cui derivava la sua scrittura stentata, tracciata con la mano che non era la sua mano per scrivere; il tratto tremolante, le lettere allungate per bene con tutti gli occhielli a posto, che si studiava calligrafia allora, e questa era una cosa che le ho sempre invidiato, quel corsivo elegante che è identico a quello di tutta la sua generazione.
Mi raccontava di una sorella gemella che era morta da piccola e di vestiti da ragazzine piccolo-borghesi.
Bugie.
Mia nonna inventava la sua storia, riscrivendola di volta in volta con nuovi particolari, dipingendo una vita che era stata avara, con i colori di quella che avrebbe voluto. L'ho scoperto a quattordici anni che non è mai stata piccolo-borghese e che non aveva mai avuto una gemella e a raccontarmelo fu suo fratello, ormai anche lui nonno, attraverso un libro che aveva scritto a mano e in cui raccontava la loro infanzia di stenti ma comunque felice. Il contorno toscano, prima Arezzo poi Firenze, la povertà, la fame, l'alluvione, c'era tutto in quel libro, se ne stava lì nero su bianco come un tradimento di tutto quello che mia nonna voleva rimuovere per inventarsi una vita in cui lei era sempre stata benestante e con i vestiti e i capelli curati.

Le rimase questa cosa, quella delle "signorine bene" e in un destino che le aveva regalato solo nipoti maschi tranne me, non le pareva vero che con tutte le belle bambine di pizzo, crinoline e capelli lisci, le fosse capitata proprio quella bimba paffutella, sempre sdraiata in terra coi pantaloni di velluto a costine e le clarks a giocare con i balocchi del fratello.
Mi criticava spesso, mi diceva che le signorine bene non giocavano così, non mangiavano così, non si vestivano così. Mio padre la redarguiva, lei alzava gli occhi al cielo e mi offriva un cioccolatino al liquore per fare pace.
Lei che la fame doveva averla provata davvero usava il cibo come metro del benessere ("mangia che devi essere in carne"), ma nello stesso tempo criticava un po' delusa le mie guance piene e rosse per l'ultima corsa fatta, ché l'incarnato pallido era molto più fine e soprattutto "le signorine non corrono così".
Mi comprava vestiti che non avrei mai messo, se non ai matrimoni e comunque di malavoglia.

Ero sempre sotto la sua lente di ingrandimento, ma mi voleva davvero bene.
Eravamo a nostro modo complici, io e lei. E nel furore adolescenziale in cui criticavo tutto e tutti, non le facevo mancare le mie rispostacce, la cresta alzata, le spallucce e quello sbuffare che anche a lei veniva benissimo. Ma poi mi faceva la cioccolata e ci trovavamo a ridere per i verbi che lei usava spesso e io non conoscevo ancora, o per i nomi che storpiava (ci sarebbe da scrivere un post solo su questi) e le parole che inventava. E mi chiedeva dei ragazzi e perdeva il filo ogni volta, volubile com'ero, non faceva in tempo a imparare un nome che ero già passata ad un altro.
Ci faceva la torta tutte le volte che veniva a pranzo, la ciambella o quella di mele, e cascasse il mondo la domenica sera eravamo a casa sua; mi ricordo Paolo Valenti in sottofondo, mio padre che guardava i risultati delle partite, mentre noi mangiavamo la minestrina in brodo "ché vi pulisce bene", ma certo.

Mia nonna se n'è andata molto prima di andarsene davvero. L'ha presa a braccetto l'alzheimer portandola a spasso in un tempo che non era più quello reale, che se non fosse il dramma che è ci sarebbero parecchi aneddoti divertenti da raccontare. È strano vedere scomparire qualcuno dietro i propri occhi, quella stessa faccia che due mesi prima ti ascoltava parlare e che non è più in grado di riconoscerti, di sapere in che anno siamo, di capire che non c'è più quella guerra, di pensare che i suoi figli sono ormai tutti sposati. Spietato per chi sta di fronte a una persona amata vedere che c'è questa cosa che un po' alla volta le cancella i ricordi, rendendo confuso tutto quanto, innanzitutto se stessa.
Non ci pensavo allora, come potevo?, avevo più progetti che ricordi, e se anche li avessi persi non mi sarebbe sembrato questo grande dramma. E invece, dannazione, siamo quello, i nostri ricordi, la nostra storia, le cose e le persone che riusciamo a pensare e che aggiungono colore alle esperienze, ai giorni andati, alle imprese compiute. È proprio stronza quella malattia che ti porta via tutto questo, che ti porta via a poco a poco tutto ciò che sei. Lei non se ne rendeva conto, viveva in una bolla di tempo indefinita dai contorni che sfumavano e di cui non restavano tracce forti, una bolla comunque serena anche se in un modo "sospeso", ma per noi, quelli che le volevano bene, era dura.

Mia nonna mi ha raccontato mille cose prima di andarsene, molte inventate, molte colorite, molte erano solo sogni, me le tengo lì tra i ricordi, insieme al rivestimento della sua ottomana, ai suoi gatti, la stufa a legna, le merende coi panini col prosciutto che solo lei -vuoi un goccio di vino? -ho sette anni, nonna -appunto - i ninnoli assurdi di cui aveva piena la casa e quelle fotografie dal bordo zigrinato in cui era davvero bella, sorrideva e guardava avanti verso tutta la sua vita da vivere.
Oggi sarebbe stato il suo compleanno.