30 settembre 2011

Liberi di (ma liberi da che cosa?)

Ho Sky da tre giorni e ho capito che: posso fare pilates in salotto come la seguace di una Jane Fonda qualunque, imparare a cucinare da millemila chef diversi, i nuovi autori televisivi trovano che l'obesità sia fonte di grande interesse, posso vedere cartoni animati orrendi e neanche uno straccio di "Piccoli problemi di cuore", c'è un tutorial per tutto - dallo sfilare in passerella al protocollo dei ricevimenti internazionali, mi chiedo dove diamine vendano i dannati pettini di mare di Gordon Ramsey, il mondo è pieno di gente appassionata di motori (avevo proprio bisogno di Sky per capirlo...) e moto ovunque, Pippi Calzelunghe non è un buon modello di riferimento per i bambini ma tra lei e le Winx mille volte lei, il cinema in HD è una vera figata, il buon gusto è un bene di lusso, ci sono case orribili, The Good Wife è il mio nuovo telefilm di riferimento, il mondo è pieno di bambini agghiaccianti  (e genitori peggio), la Tata Lucia mi fa paura, ci sono matrimoni che dire trash non rende l'idea e tutt'un approccio filodefilippiano al caso umano che, diosantissimo, anche no.

Ma soprattutto ho capito che detesto Cristina Yang (corretto a posteriori: vedere annotazioni nei commenti).
Son cose.

28 settembre 2011

La danza del qua qua

Lee ha deciso di andare a danza.
Ed è proprio il genere di scelta che ci aspettavamo da lei, che non è propriamente braveheart, che ha paura di farsi male, e che il contatto fisico con gli altri bambini fino a un certo punto poi aria.
E quindi lezione di prova, lacrime da abbandono "oddiodovròmicastarequidasola", entusiasmo post-lezione e iscrizione. Ne hanno preso esempio altre cinque sue amichette dell'asilo. Ecco, sentivo proprio il bisogno di ulteriori spazi di condivisione con le mamme, e peggio ancora le nonne, dell'asilo.
E infatti.
Tempo due lezioni ed eccole lì a chiedere delucidazioni alle insegnanti.
Che poi, stiamo parlando di danza per bambine di cinque anni, cioè la Abbagnato è un'altra cosa per non parlare di Sylvie Guillem. La Ferri? No, anche lei abita altrove.
Queste pulcine saltellano, corrono, imparano a muoversi a tempo con la musica.
La sbarra, le posizioni, pliés, dévelloppès, grand fouettè en tournant, rond de jambe, e sticavoli non li vedono neanche da lontano.
E ci mancherebbe.
Esattamente quello che mi aspettavo da queste lezioni di danza.
Ma evidentemente, e tanto per cambiare aggiungerei, sono l'unica.
E mi chiedo come mai.
Mi chiedo se mi dovrei interessare anche io alla carriera ballerina di mia figlia, lo chignon le sta così bene del resto...
Perchè le altre partecipano, fanno presente che le loro bambine sanno fare la spaccata (eh?) o che hanno il fisico giusto per, e guarda che collo, e guarda che gambe, e guarda un gabbiano (cit.). E il mio primo istinto è di ritirarla se non fosse che, grazieadio, le insegnanti tagliano corto con l'espressione di chi ogni anno deve spiegare che le selezioni per la Scala, ecco, magari ne parliamo più avanti.

Che poi se penso a quello che implica il mondo della danza, non sono proprio certa che sia il genere di futuro che augurerei a mia figlia, eh.
Ma se la competizione comincia dalle mamme come ci si può aspettare che non passi alle figlie? Conoscendo Lee posso dire questo: lei non è quella che lancia la sfida ma se ci si trova in mezzo corre.

E quindi.
Il discorso della magrezza.
La magrezza è un tasto su cui non riesco ad andare con facilità (poi forse un giorno ne parliamo ma anche no).
Meno che meno quando si tratta di bambini.
Io detesto chi pesa i bimbi con gli occhi, chi li misura, chi commenta i cicciottelli, chi per innalzare uno scricciolo mortifica chi esce dalle dimensioni standard. E questo è un messaggio che i bambini percepiscono forte e chiaro, perchè è talmente elementare che lo fanno subito "loro", e peggio ancora lo diffondono.

C'è già all'asilo questa percezione del magro come qualcosa di positivo da opporre allo smaccatamente negativo del grasso (sì, davvero: vi presento i bambini di oggi). Io di una cosa ho la certezza: che Lee farà danza fino a quando vorrà, e fino a quando non avrò la sensazione che l'istituzionalizzazione della magrezza di questo ambiente le stia facendo male in qualche modo.

Mi auguro che passi del tempo.
Per ora più che cigni, paperelle.
E finchè paperellizzano va tutto bene.

27 settembre 2011

L'amore - casinò edition

Che poi, non importa che tu stia vincendo o perdendo.
Che tu abbia buone carte o meno.
Che tu possa spendere una fiche o centomila...
A quel tavolo da gioco, spesso sbilanciato, che è una relazione d'amore bisogna sempre puntare tutto e rilanciare.

Ancora.
E ancora.

26 settembre 2011

Se li facesse Miuccia sarebbero senz'altro più adeguati

Interno negozio sportivo.
- Cosa ci facciamo qui? - chiede Lee.
- Eh, cosha ci faScciamo qui? - ribadisce Roo.
- Eh, appunto, spiegaci, cos'è che ci facciamo qui? Di nuovo, aggiungerei?
- Ti serve un antivento per correre quando piove.
- Sono andata una volta sola a correre sotto la pioggia, non è detto che si ripeta. Al momento ho più abbigliamento sportivo che voglia di correre.
- Non importa, arriva l'inverno, devi coprirti bene. Quindi ti serve un antivento.
- Mi colpisce la disinvoltura con cui dici "ti serve". Se proprio vogliamo essere pignoli ci sono tante cose che mi servono prima di questa, che so, un abito Miu Miu, una vacanza alle Seychelles, un bravo analista.
- Ah per quello però non ce la caviamo con quello che spendiamo qui.
- Touchè. Antivento, forza. C'è monospalla?
- Ma io perchè mi ostino a portarti in questi posti?
- [Lee] Eh, ce lo chiediamo tutti.

E quindi ho l'antivento.
Non è monospalla, per chi se lo stesse domandando.
E quindi non ho neanche più la scusa della pioggia ["hai anche l'antivento? cosa rompi le balle?"].
Confido nel cedimento dei miei crociati.

24 settembre 2011

Le cose che mancano

I dettagli. Quelle piccole cose che lui non notava quando gli stavano troppo vicine, ma che ora a saperle altrove gli spezzano gambe e cuore, non necessariamente in quest'ordine.
La delicatezza di una mano su una guancia, che non è più la sua.
Il bacio distratto di un ritorno a casa.
Quella risata che risuonava spontanea e potente, e quella voce, quella che era abituato a sentire al telefono tante volte, per regalarsi reciprocamente un pizzico di quotidiano, senza dirsi mai niente di davvero importante, quella voce capace di essere delicata, soffiata, potente, crudele, ruvida, graffiata, dolcissima.
Le mille trovate creative che faceva solo per lui, tante, tantissime.
Quel gioco, quando si salutavano, di guardarsi indietro per ritrovarsi un attimo ancora prima di andare via.
Un braccio passato intorno alla vita per camminare vicini.
Le chiavi maneggiate piano per aprire quella porta.
I passi leggeri su un vecchio parquet scricchiolante.

I bigliettini gialli che trovava in giro con su scritte delle parole che ora sono silenziose, e proprio nel loro essere silenziose fanno male da morire.
Perchè non sono le sue parole, non più.
Ora sono parole che appartengono a qualcun altro allora si chiede se hanno lo stesso suono, lo stesso sapore, la stessa importanza che solo ora lui riesce a dar loro, e si chiede se il destinatario attuale di quelle parole, quelle che solo ora sa riconoscere come così importanti, si renda conto del loro valore o se le accoglie distrattamente come parte di un quotidiano ormai assodato.

E poi, la curva di un sorriso, il tocco di una mano che si stringe sulla sua, e insieme sulla leva del cambio, quel tipo di ironia, quelle parole inventate, quella musica che non c'era mai ma c'era sempre, quegli occhi.
Chè non è tanto ciò che una persona fa, a mancare, ma ciò che è.
Le azioni sono in fondo ripetibili.
Ma come si fa a ripetere un cuore?

23 settembre 2011

Memento, io.

L'ho detto, io sono una persona approssimativa.
Diciamo che le specializzazioni sono qualcosa che mi spaventa e per le quali mi manca il carattere. Chè se si tratta di abbozzare qui e là, senza troppo sforzo, va bene, ma se dobbiamo considerare lavorare davvero con fatica per perseguire un risultato, ecco ciao, io no.
Mi piacerebbe eh, ma no.
E guardo gli altri che lo fanno, e li ammiro, e li invidio anche, e sui loro successi faccio meravigliosi propositi per il futuro - ah, domani anch'io - che restano insoluti e irrisolti come me. E allora comincio a trovare delle scuse, spesso veramente ridicole. Oppure nelle fasi più basse delle mie montagne russe uterine, faccio la vittima e "il mondo ce l'ha con me, è per questo che io non". Ma certo. Arringo nel mio delirio di persecuzione con Lui che mi guarda mangiando popcorn, e probabilmente senza ascoltare, consapevole che tempo due giorni sarò di nuovo la persona più felice del mondo.

Ho dei talenti che non servono a nulla però.
Ad esempio.
Io-ricordo-tutto.
TUTTO.
Numeri di telefono che non servono più, pin di bancomat di tutti i componenti della famiglia allargata, le password (tantissime) di tutti gli accessi a tutti gli stracavolo di siti che ti chiedono il login, i nomi delle persone (non al primo incontro in cui mi concentro su altro, ma quando li imparo non li scordo più) e relative mogli o mariti o amici o figli o salamadonna, ricordo quella parola detta, quell'espressione del viso, quella volta che quella persona ha fatto l'esame della patente, quella che quell'altra una canzone al karaoke, quella che doveva fare una visita per un giradito, e mi devo dare una regolata chè le persone restano stranite da questo mio ricordare cose che mi hanno raccontato loro stesse tempo prima, e mi guardano come se fossi Glenn Close in Fatal Attraction. E invece no, io ricordo e basta, non lo faccio apposta, i ricordi mi restano attaccati come insetti sulla carta moschicida.
Ricordo dettagli che non ho chiesto su vite private che non mi interessano, ho un intero reparto dedicato alle cazzate e alle informazioni inutili, mi colpiscono dettagli che poi mi si fossilizzano nella testa come se ci fossero sempre stati.
Ricordo date, anniversari, compleanni, ricordo ogni parola detta in ogni mia storia passata.
È una costruzione colossale, un casino, una Babele di parole, numeri, nomi, voci.

E la cosa davvero simpatica, è che non serve a nulla.
(a parte a quella granculo di Anne Hathaway al party di Miranda, macheccentra).

21 settembre 2011

Da vedere

Premio come miglior film e premio del pubblico al Milano Film Festival.
Va in onda stasera alle 23:50 su Rai Tre (un orario comodo comodo, ne convengo).
Io voglio vederlo.
Cioè, vorrei. Ma avrei preferito una programmazione, che so, tipo alle 6 di mattina, al posto delle lezioni di ingegneria.
E invece.
Certo che sulla Rai per la diffusione della cultura si può sempre contare eh.

20 settembre 2011

Il picnic

Ecco, è arrivata la lettera d'amore non mia. La riporto qui.
È curioso. Anche io ho un picnic così da qualche parte nel mio passato. Ora è di nuovo un po' presente, con quell'odore di prato, quella coperta, quel sentirsi felici a base di birra e carboidrati (del resto, con birra e carboidrati come puoi non esserlo).
No, non c'entra. Non erano birra e carboidrati a fare la felicità, allora. Era un microcosmo di parole che non si potevano dire, di gesti, di occhi negli occhi, di contatti che.

Comunque ne voglio ancora, di lettere. E anche di birra, carboidrati, picnic e coperte.


Lettera d'amore #1
Dolce Caterina,
dolce come la marmellata e il burro sulle fette di pane caldo, dolce come l'aria che smuoveva le foglie del pioppo sotto cui eravamo seduti sabato e che faceva filtrare un po' il sole, dolce come il profumo dell'erba del prato sui cui avevamo steso le nostre tovaglie e apparecchiato il nostro picnic.
Dolce Caterina, ti sarai accorta che sono un tipo silenzioso, che appena ti voltavi a guardarmi infilavo in bocca un altro pezzo di pane, un frutto, il bordo del bicchiere. Forse avrai pensato che sono un mangione, e che avrei spazzolato tutta la merenda non lasciando niente per gli altri. O forse avrai pensato che sono timido e cercavo un modo di impegnare le mani e la bocca per non sembrare impacciato davanti a te, che sei così bella e ti muovi così bene, che sembri così a tuo agio con tutti, in ogni momento. La realtà, dolce Caterina, è che tutto era talmente bello e perfetto e dolce che qualsiasi dolcezza in più sarebbe stata intollerabile. Non potevo parlarti, non potevo nemmeno sopportare l'idea che tu mi rivolgessi la parola: sarei svenuto di dolcezza e rimasto privo di sensi steso sul prato, il bicchiere in mano, il boccone in gola. 
Perché vedi, dolce Caterina, solo guardarti ridere rendereva più bello il paesaggio. Solo ascoltare la tua voce mentre chiedevi chi volesse un'altra fetta di torta faceva sembrare il sole più caldo e l'erba più verde e l'acqua più fresca e tutto più buono. E io pensavo “dolce, com'è dolce Caterina” e ti guardavo e tu mi guardavi, e allora diventavo rosso e mi riempivo le guance della prima pietanza a portata di mano. E poi ero felice. Ero così felice che non mi importava nulla di fare la figura dello stupido o del mangione, del timido, dell'impacciato.
Ecco, ti scrivo questa lettera solo per dirti questo: sei così dolce Caterina che non mi importa più niente di me. Mi importa solo sapere quando potrò rivederti, e ti prometto che sarò preparato e pronto, e disposto anche a svenire dalla troppa dolcezza, e che se mi vorrai parlare non sarò più timido ma solo tanto, tanto, tanto felice.
Matteo

Le parole che non ho scritto

Facendo un giro nella rete, di quelli che cerchi un viaggio in Micronesia e ti ritrovi a giocare a scacchi contro uno di Taiwan, ho trovato questo link. Me ne sono innamorata, ho scritto il mio indirizzo email, e sto aspettando di diventare la destinataria di una lettera d'amore che non è nata per me ma che saprò apprezzare.

Ne ho scritte tante, io, di lettere d'amore. Non tutte sono poi effettivamente partite, anzi direi una minima parte. Il fatto è che non ho mai ammesso che quelle che scrivevo fossero lettere d'amore, non nel senso universalmente inteso. Avevano la voce bassa e ruvida delle parole dolorose, erano troppo crude, dirette, sofferte, troppo poco "miele" per poterle repertare come tali. E invece mi rendo conto che lo erano, che nel mio essere spesso graffiante, irriverente, caustica, sofferente, stavo sempre mettendo qualcuno sul piedistallo d'oro che spettava alle persone che amavo, e che spesso non. C'era dentro tanto quotidiano, tante parole che non sapevo pronunciare, tanta voglia di mettere ordine o solo puntini sulle i, c'erano dei disegni, c'era dentro una grande necessità di silenzio che io stessa non sapevo affrontare, e tanto bisogno di risposte che mai.

La regina dell'amore incondizionato.
Che è l'unico che possa contemplare l'opzione "ti amo e tu non sei tenuto a riamarmi" (poi sono guarita...).

Allora adesso voglio vedere cosa scrivono gli altri, in quelle lettere d'amore. Cosa c'è dentro, quali ricordi, rimorsi, progetti, rimpianti, possono contenere. Quali amori. Sarà come il gioco "le-vite-degli-altri", solo che anzichè osservare una situazione potrò leggerla nero su bianco. Potrò prendere l'impronta di un'anima altra, e non un'anima semplice ma un'anima innamorata - la più potente di tutte - e misurare in che modo calza, o meno, sulla mia.

Aspetto.
Destinataria di un amore che non è mio, per vedere di nascosto l'effetto che fa.

17 settembre 2011

Post per un'amica - Changing rooms

Il fatto è che ti capita di finire spesso in situazioni in cui devi ridimensionare te stessa. E andrebbe bene se quel ridimensionamento non fosse una "riduzione". Ci sono cose che ti rimpiccioliscono, che non ti danno spazio, che ti mettono in stanze chiuse e piccole e senza finestre, e tu non riesci a farci crescere dentro neanche un pensiero buono. Che le pareti ti stanno addosso e la stanza è piena di suoni elettronici e suonerie più che, propriamente, musica. Non puoi più.
Non vuoi.
Tu non vuoi essere piccola.
Tu sei ingombrante, rumorosa, feroce, testarda, scordinata, golosa. Non sono pregi, intendiamoci, ma tu sei fatta così, quindi le stanze piccole, quelle in cui devi entrare facendo attenzione a quanto rumore fai, a come ti muovi, a quante parole dici e quali, ecco, tu non le sai vivere.
Quindi si cambia. Basta stanze piccole. Non dico di buttare giù i muri, dico proprio di cambiare edificio, città, pianeta. Perché tu non sei capace, visto che per esserne capace dovresti diventare piccola.
Non sei piccola.
Per niente.
Sei rumorosa, approssimativa, disordinata, irragionevole, spesso superficiale, immatura, distratta. Ma sei tutte queste cose in quel modo eccessivo che non ci sta dentro stanze piccole. Hai bisogno di stanze immense per poterci far entrare anche tutti i tuoi difetti. E hai bisogno di cielo per sognare.
È settembre, ormai.
I buoni propositi.
Stanze immense.
Tu.

15 settembre 2011

Di come una salita mi porti a rivedere i miei principi educativi

Una bicicletta.
La mia, infatti pedalo io.
Seggiolino davanti: Roo, 16 chili di salute.
Seggiolino dietro: Lee, 18 chili.

Andata rigorosamente in discesa, così io mi illudo di essere particolarmente in giornata e che in fondo non è poi così difficile. Ma certo.
Ritorno: salita.
Roo chiede se gli canto una canzone, visto che manca l'autoradio e lui apprezza il viaggio solo con la musica.
Io in pieno affanno glisso dopo la seconda strofa "non me la ricordo più".
Lee: - Bè, io non sto facendo nessuna fatica.
- Forse perchè le gambe sono le mie mentre le tue chiappe sono comodamente appoggiate.
- Anche le tue chiappe sono comodamente appoggiate.
- Touchè (ma dentro penso: te possino, te e la linguaccia tua).
- Bè dai mamma, non stai andando poi così male, ad esempio, quella macchina sei riuscita a superarla  - mi dice indicandomi un catorcio d'auto parcheggiato a bordo strada, e attacca con la sua risata che mi porta via.
Roo - Anche quella signo(r)a hai supe(r)ato - 80 anni, con deambulatore -  e fa eco alla risata di sua sorella.
- ...
Lee: - Sta arrivando l'inverno, il tempo che ci porti a casa - e giù ancora a ridere.
- Devo proprio smetterla di crescervi nel sarcasmo. State diventando delle brutte persone.

14 settembre 2011

6 maggio 1994 - finale

(le puntate precedenti: qui e qui)

Io penso positivo perchè son vivo.
Palazzetto in delirio, e c'era Saturnino e i suoi triplocarpiati, e c'era Centonze, e c'era un sacco di altra gente, e le luci, l'audio perfetto, e lui che ballava e saltava tutto il tempo. La folla spingeva ma noi non sentivamo più niente, troppo impegnate a cantare e a guardarci e a guardarlo e a vedere se ci guardava.
Non ricordo la tracklist.
Però ricordo che su Ragazzo Fortunato venne giù il palazzetto, così come su Io ti cercherò, Gente della notte, Chissà se stai dormendo ci fu un tripudio di accendini accesi e gente che dondolava e cantava e partecipava. Noi zitte neanche per un attimo. Le magliette ci si appiccicavano addosso per il sudore nostro, ma soprattutto altrui (non è un'immagine meravigliosa?).

Il nostro momento di gloria come ginette ci fu su Serenata Rap. Lui bellissimo, seduto con le sue gambe lunghe a penzoloni di fronte a noi, un mazzo di margherite in mano. Le allungò verso il pubblico, verso di noi quindi, e gli vennero letteralmente strappate di mano. Una riuscimmo ad afferrarla, e subito infilarla nello zaino. Ci saremmo spartite i petali in numero uguale subito dopo la fine del concerto, per plastificarli con lo scotch dietro al biglietto  (dovrei ancora averlo da qualche parte),  ginettismo allo stato puro anche nella produzione del feticcio amarcord.

Fu straordinario.
Vissuto con la violenza di quegli anni, il nostro primo concerto, e soprattutto il nostro unico concerto insieme, non lo avremmo mai dimenticato.
Alla fine, dopo i bis, i tris, il tripudio, gli applausi, noi che eravamo entrate per prime, ovviamente eravamo destinate ad uscire per ultime, ma andava bene: volevamo prolungare quell'emozione, volevamo stare lì ancora un po', perchè andare a casa significava che davvero era tutto finito e noi non eravamo pronte.
Vedemmo le tribune svuotarsi, e noi ancora lì, stavolta a dare le spalle al palco e a guardare intorno a noi la gente improvvisamente anonima, quella che prima era stata una creatura policefala, vibrante, un unico grande battito.
"Ma che fretta hanno?", ci chiedevamo, noi che da lì non riuscivamo a muoverci.
Il palazzetto era quasi vuoto, toccava proprio noi uscire ora. Ma prima, un cerchio, un girotondo di bambine cresciute, un ultimo abbraccio per dirsi grazie-grazie-grazie, che questo concerto sarebbe stato perfetto a prescindere perchè, in fondo, a contare davvero, non è quello che trovi sul palco, ma quello che ti porti da casa.

Però, a distanza di anni, io ancora non capisco una cosa: come mai la maglia blu elettrico della nostra compagna, indossata da G., e subito infilata in un sacchetto dopo il concerto (immaginate una maglia acrilica con addosso il sudore di minimo 10 persone e chiusa in un sacchetto di plastica per dodici ore quale delizioso effluvio riesce a produrre, ecco) ho dovuto lavarla io?

Misteri del ginettismo. Ma comunque.

11 settembre 2011

Quello spazio in mezzo

Non riesco a capire se sono indifesa o in difesa.
Nel dubbio, credo che mi aprirò una birra.

(sindromepremestruale, sì, ed è anche domenica sera - famo tutt'un conto)

8 settembre 2011

In compenso... (mica che si pensi che sono un'ottimista)

Non vedo più una vetrina perchè sempre intenta a correre dietro a Coppi e Bartali sulle rispettive biciclette.
Faccio figure di merda colossali grazie alla lingua lunga dei due bassetti.
Il mio salotto sembra un negozio di giocattoli in cui è esplosa una bomba.
Devo parlare in inglese con Lui se voglio dirgli cose che prima o poi i bambini potrebbero ripetere.
Non riesco a uscire dal supermercato senza l'ennesima scatola di pennarelli o album da disegno o libro o chewing gum dal sapore improbabile, oppure litigando fortissimo con l'uno o l'altra, a turno.
L'abbigliamento dei due è diventato un problema. Così come la pettinatura. E gli accessori.
Paint-your-life è il programma di riferimento di entrambi (mea culpa, sì), che poi pretendono di usare la porporina. Sul mio divano. Sul tavolo del soggiorno. Nelle mie pentole. E colla vinilica come se piovesse.
Il gusto gelato per eccellenza è il puffo.
Hanno appuntamenti con amici e amiche e una vita sociale che io me la sogno ma ce li devo accompagnare.
Le verdure hanno improvvisamente un colore problematico.
Se si innamorano di una canzone, vogliono quella e solo quella (ma del resto, da che pulpito?) e in questo periodo va di lusso che la canzone è l'Ombelico del Mondo. Quando era Heidi i miei nervi hanno fatto ciao come le caprette (al miliardesimo ascolto, qualsiasi canzone che non ho scelto io mi diventa un filo molesta).
Il mattino più che l'oro ha in bocca cereali di una dolcezza nauseabonda.
Una sola parola che racchiude un mondo: PARCHETTO. E ho detto tutto.
Il bagno ha il senso che deve avere: cioè quello di riportarli al colore originale.
La competizione è quella cosa che prendono in considerazione solo se sono certi di vincerla.
È-l'amico-è quello che ha proprio il gioco che vorrebbero loro, il quale, amico, in genere ha una mamma che no, non è-l'amica-è per me.
Rischiano di causarsi lesioni gravi dalle 5 alle 15 volte al giorno, e io ogni volta perdo anni di vita.
Il silenzio è d'oro e in casa nostra inesistente.
La macchina è quel posto dove si possono tirare giù i finestrini con qualsiasi tempo, cantare fortissimissimo e toccare tutte le leve mentre la mamma apre il box.
La verità è quella cosa talmente noiosa che bisogna colorirla un attimo.

Per il resto, tutto bene.

Le cose che fino a 3 anni fa mi sembravano impossibili

Che, in fondo, me lo dicevano tutti: "è una fase". Ma quando ci sei dentro, e si tratta della tua vita, quella fase sembra eterna. E pensi, contro ogni logica, che non ne verrai mai fuori. E invece.

Never more pannolini, e tutto ciò che comportano. Da cambiare non solo a casa, ma in ogni posto e situazione possibile e immaginabile.
Dormire una notte intera, senza millemila risvegli e relativi umore-colorito-occhiaie-simpatia che questa cosa, protratta nel lungo periodo, si porta dietro.
Tempo per truccarsi. EH? O che so, fare una doccia senza affacciarsi ogni dieci secondi per rassicurare uno dei mini-me, che no, non sto annegando, che quella non è una cabina per il teletrasporto e che non verrò inghiottita dal coccodrillo che vive nelle fogne.
Tempo per fare sport. Perchè la domanda "Ah, perchè non basta la vita quotidiana?" ha una sola risposta:  no, non basta, perchè sei in casa per 15 ore al giorno e il tuo migliore amico è il frigorifero in cui la Danette alla vaniglia è la regina incontrastata della tua alimentazione in un'alternanza malsana e goduriosissima con il Concertino all'amarena. O con gli avanzi di pappine color tristezza e sapor depressione.
La farmacia non è più il sommo luogo di socializzazione. Nè di spesa.
Cucinare una cena sola per quattro persone.
Ritrovare la cucina, dopo cena, al netto di quegli intempestivi starnuti sulle stelline che non (da cui derivava dover tornare in doccia, come sopra).
Riuscire ad uscire di casa con un abbigliamento pulito, senza la sbavatura last-minute derivante dall'ultimo saluto sul pianerottolo. O l'adesivo di hellokitti sulla chiappa.
Non dover più girare per la città con un passeggino che sembra la versione ridotta del Circo Togni.
Andare al supermercato senza avere fagottini imbottiti di dieci chili infilati come baguette sotto l'ascella da sommarsi ai sacchetti della spesa, ma molto mooolto più rumorosi (e spesso decisamente più puzzolenti).
Poter girare in macchina senza le Tagliatelle di Nonna Pina ma con i Black Eyed Peas o i Muse, che è un bel miglioramento soprattutto per il mio sistema nervoso.
Vedere gli amici e riuscire a parlarci anche per cinque minuti di fila (sì, certo, ad un volume da concerto rock, ma comunque).
Programmare viaggi e vacanze senza difficoltà, e con il bagagliaio dell'auto che improvvisamente è sufficiente per tutto.

Insomma, bisogna tenere duro. È solo una fase, e poi passa.  Davvero.
E dopo è molto divertente.

7 settembre 2011

6 maggio 1994 - seconda parte

(riassunto della puntata precedente, qui)

All'uscita da scuola ci aspettava la sorella grande di G., aria scettica, sopracciglio alzato.
- Contente voi di andare a vedere quel pirla, contenti tutti.
- Ne riparliamo tra qualche anno, eh.
- Tra qualche anno sarà scomparso, e nessuno si ricorderà più di lui se non per le prime stronzate.
- Vedremo. 

Diversamente fan. 
Non ci interessava che il mondo capisse il nostro punto di vista, anzi in realtà quello che avremmo voluto veramente, e quello che in fondo credevamo, era che nessuno lo capisse all'infuori di noi. Volevamo un suo concerto per noi quattro, cantare con lui, e poi magari farsi scappare un limone, macheccentra.

Ore 14:05, fuori dai cancelli. Il concerto iniziava alle 21. A quell'ora eravamo davvero in poche (tutte femmine, strano...), e noi attaccate alla ringhiera dell'entrata centrale, a fare picchetto, a prendere il sole, a mangiare i panini, senza bere perchè poi se devi far pipì ti tocca mollare il posto e noi mai, a ripassare i testi delle canzoni, mica che ci tocca poi stare zitte per un secondo.
Sei ore al sole in un pomeriggio di maggio. Roba da uscirne stordite completamente, e invece tenevamo botta con una tempra e con una convinzione che mai. Intorno cominciava ad arrivare molta gente. E noi lì. ferme, fisse, praticamente incatenate al cancello.

Alle 19, all'interno del cortile del palazzetto cominciarono a sistemare le transenne. Apertura dei cancelli. La tensione si tagliava col coltello, non dovevamo rischiare di perdere il nostro posto d'onore, avremmo fatto a botte per essere in prima fila anche alle transenne, lo step successivo. E infatti. Spintoni, urla, lo zainooo!!, ahia, che male! ci siete? ci siamo! eccoci lì in prima fila, noi quattro, incollate alla transenna centrale. La folla dietro spingeva, a ondate ripetute. Noi non potevamo avanzare ma solo schiacciarci di più contro le inferriate (il giorno dopo avremmo constatato di avere degli enormi lividi viola a forma di cancellata dallo sterno all'ombelico, una meraviglia).

Il più era fatto. Ora si trattava solo di essere velocissime (ecco, parliamone, noi velocissime...) dal momento dello strappo del biglietto all'arrivo sotto palco. Eccoli lì, i bigliettai. Tensione. Come ai 100 metri olimpici, solo un filo meno scattanti e muscolose, ma comunque.
A. sfoderò le sue armi, occhioni languidi, una spazzolata ai capelli biondissimi, e come per magia il bigliettaio venne subito da noi. Le prime quattro ginette a entrare nel palazzetto, che non è come entrare nella storia ma per noi andava bene comunque.
Dentro.
Altre transenne. Altra folla che spingeva. Lividi rinverditi da questi ulteriori schiacciamenti. I gorilloni della security davanti a noi ci gettavano acqua addosso, G. andò fuori di testa "i capeeeeeelliiiiiiii!!!" (un'altra con l'inquietudine tricotica costante, non in generale, ma perchè c'era A. a fare da riferimento), la maglietta bianca di S. diventò trasparente e le sue tettone si presentarono in tutta la loro marmorea fisicità (noi, che le tette le avevamo giusto lasciate a casa, verdi di invidia).
A. ovviamente, in tutto questo marasma, imperturbabile, impegnata a rimandare al mittente l'ennesima avance del pomeriggio, con un sorriso e una gentilezza che ti veniva quasi voglia di ringraziarla per il due di picche che ti stava rifilando.

Un'ora all'inizio del concerto.
Ormai la transenna era parte integrante delle nostre costole, il palazzetto gremito, qualche coro si alzava spontaneo per decadere subito. Qualcuno attaccava a battere le mani, e non si capiva mai come, ma dall'inizio c'era sempre quello che non riusciva ad imbroccare il ritmo, e sì che si direbbe una cosa elementare.
Noi, tutto un allungare di colli, per vedere i movimenti dietro le quinte.
Poi.
All'improvviso.
Luci spente. Buio.


(continua)

6 settembre 2011

Scritto nel corpo

Ho letto pagine e pagine di libri di musica. Ora non ricordo il nome delle note che suonavo su quella tastiera bianca e nera, ma è come se le mie mani avessero una memoria tutta loro, e infatti, pur senza ricordare precisamente lo spartito mi ritrovo nelle dita quelle stesse melodie come se fossero lì, sotto pelle, ad aspettare solo l'occasione di essere riattivate.

Il corpo ha una sua memoria.

Come quando non si ricorda un numero di telefono ma il gesto di digitarlo su una tastiera e tutto torna.
Come una coreografia che hai ripetuto talmente tante volte che basta l'accenno perchè si porti dietro, trascinandola, la parte restante dei passi che prima non.
Come quando si mette la firma, che non è propriamente scrivere, perchè il più delle volte quelle non sono lettere ma segni, e quindi più che la scrittura ricordi il gesto del segno da tracciare.
Come quelle filastrocche che si cantavano da bambine, una di fronte ad un altra, il cui testo era semplicemente assurdo, utile solo a dettare il ritmo su cui poi le mani si sarebbero mosse.
Come andare in bicicletta.
Come saper fare la ruota, che una volta che impari è tua per sempre.
Come inclinare la testa per un bacio, che resta spontaneo fare anche quando poi una storia è finita, ma continui ad aver davanti ai tuoi quegli stessi occhi.
Come camminarsi accanto che il proprio corpo si risintonizza su quel ritmo conosciuto.
Come certi abbracci che ti chiedi come siano possibili, come se qualcosa ti alzasse le braccia proprio in quel modo perfetto per avvolgere quella persona.

Il corpo si ricorda cose che la mente non.
Il corpo è un genio.

E una tortura, macheccentra.

3 settembre 2011

Le lezioni di vita che noi / 2

- Andiamo a cucinare Roo! Bisogna anche cucinare.

- Mamma, anche i maschi cucinano?
- Certo amore, solo che quando lo fate voi vi chiamano "chef", quando lo facciamo noi "cuoche".
- Lara, madò, che pesantezza.
- Undicesimo: non mettere "Lara" e "peso" nella stessa frase.
- Sta per cominciare il momento Simone De Bouvoir del weekend? È questo?
- ...
- Bimbi, venite qui a sedervi. La mamma sta per farmi nero. La cosa buffa è che la pensiamo allo stesso modo, eh. Ma se vuoi arringare, arringa pure, prego. Posso cucinare nel frattempo?
- Accomodati. Ma ascolta.
- Ma naturalmente.

Le lezioni di vita che noi / 1

Interno, giorno.
Nel mezzo di una casa c'è un'asse da stiro, davanti ad essa una donna alta, accanto alla donna una torre di vestiti da stirare ancora più alta.

- Camicie usa e getta, ecco la soluzione.
- Dai, scansati, stiro io.
(sopracciglio alzato e occhi sgranati) - Scusa?
[Lui non stira da sette anni, cioè da quando vivevamo a Milano, facevamo entrambi degli orari lavorativi assurdi, e molto maturamente ci giocavamo questa cosa a bim-bum-bam ogni sabato mattina... Sull'altro piatto della bilancia, comunque, c'era "pulire il bagno", eh, mica shopping in centro, sia chiaro N.d.L]
- Stiro io. Non voglio che i bimbi pensino che questa sia una cosa che riguarda una sola dei due.
- Bè puoi cucinare, anche quello è un bell'esempio.
- Naaaaa, stiro.
- Oppure, che so, puoi cambiare le lenzuola. Spolverare. Sistemare la loro stanza.
- Ho. Detto. Che. Stiro.
- Va bene, però... Solo una cosa...
- COSA!? COSA C'E'?! (dice imitando il tono da mestruataallassedastiro che mi viene ogni volta che).
- Non dirlo a tua madre, altrimenti ci manda i Caschi blu.
- Ovvio.

[25 minuti dopo, una camicia all'attivo]
- Hai visto Roo? Bisogna stirare. Tu quando sarai grande stirerai?
- Eh, ce(r)to.
- Laraaaaaaaaa! Ha capito! Puoi sostituirmi ora, cucino io!
- ...anche perchè con questo ritmo l'ultima camicia l'avrebbe stirata lui diciottenne...
- Perchè tu pensi solo a finire, io mi godo il procedimento.
- Ma naturalmente.

2 settembre 2011

Yes, indeed

''Non sono pronta all'ultimo anno di liceo. Non tanto perchè è un anno di scuola, ma perchè è l'ultimo".
Su una pagina di inizio settembre della mia Smemo di quell'anno, la mia amica A. scrisse questa frase. E in effetti, dopo di allora niente fu più come prima.
Ma eravamo giovani, con in testa un sacco di progetti e capelli al vento.
Quell'anno avremmo preso la patente, che voleva dire la possibilità di andare oltre i confini di quella provincia che ci stava così stretta.
Quell'anno andammo insieme a Roma dalla zia Esse, e riempimmo quei quattro giorni di dischi in vinile strani e conturbanti, pieni di fruscio e di quel suono corposo che i cd se lo scordano proprio.
Per motivi oscuri ci innamorammo di questa canzone, che da quel momento in poi sarebbe sempre stata associata a quel viaggio, a quella parentesi di "noi" che non si sarebbe mai più ripetuta, al ricordo di quei balletti da matte che accompagnavano la scelta fondamentale di cosa mettere per essere all'altezza della capitale, a registrare sul nastro di un piccolo registratore portatile le risate, le teorie, le canzoni, le parole che erano le nostre parole di quei giorni.
E poi al ritorno, a parlare con quel linguaggio nato a Roma, esclusive ed escludenti, nessuno avrebbe potuto capire, affacciarsi a comprendere quel mondo che avevamo creato a 600 km da casa.

E poi le lezioni di guida fatte insieme, cioè io patentata insegnavo a lei che non ancora (per dire...), nei grandi parcheggi dei supermercati chiusi, a sognare giorni in cui con quella macchina saremmo andate lontano, e avremmo visto posti, e conosciuto persone interessantissime, e tutti ovviamente si sarebbero innamorati di noi (chiaro), proprio ora che entrambe avevamo lasciato andare quella storia che era importante sì, ma se questo è ciò che chiamano amore che delusione - dev'esserci dell'altro, e quell'altro l'avremmo trovato quasi contemporaneamente da lì a poco, a parlare ore al telefono dopo che ci eravamo appena salutate, di come quella cosa ci lasciasse incredibilmente senza parole, fiato, pensieri chiari, e ma tu, e ma io, è una cosa immensa e mi fa paura.

E poi l'esame di maturità e la mia inconcludenza che già faceva capolino e mi indicava mille strade tra cui scegliere in nessuna delle quali avrei mai raggiunto l'eccellenza ma solo un grado di adeguatezza approssimativa - la mia specialità, quindi andavano tutte bene e nessuna in particolare.

L'università, poi. 
Strade diverse, scelte diverse, persone diverse, diverse forme di pensiero e di confronto.
Dove siamo finite noi che eravamo quel "noi"? Perse. Smarrite. Sospese. Lontane.
Eppure sempre noi, all'apparenza. Ma quando si è stati "sostanza", dell'apparenza te ne fai poco.

È che non si riesce mai a pensare che - quasi sicuramente - la persona di cui sentiamo così tanto la mancanza prova la stessa cosa nei nostri confronti. Che anche noi manchiamo nella misura in cui sentiamo il vuoto. Che il pugno allo stomaco quando pensiamo a quel passato condiviso non colpisce solo noi.

Infatti.
10 giugno 2004.
Giorno della morte di Ray Charles.
A. mi mandò un sms : "Yes, indeed. Roma. Noi. Ti penso".

A volte bastano cose piccolissime per riaprire mondi immensi.

1 settembre 2011

Capodanno

Settembre sa di inizio.
Retaggio dell'infanzia, quando a settembre si ricominciava con la scuola dopo tre mesi di stacco. Ora non è più così, ovviamente, in realtà a parte due/tre settimane non si stacca mai. Eppure mi è rimasto quel sapore di "si ricomincia", associato a quell'odore di cartoleria dove comprare penne e quaderni nuovi, e il diario mi-raccomando-il-diario, fedele amico silenzioso pronto a raccogliere orari provvisori e definitivi, compiti per casa, amori iniziati e finiti, versi di canzoni, nomi di cantanti, dediche di amiche, biglietti di concerti, ricordi e biglietti vari, roba che alla fine dell'anno pesava dieci chili in più, ma nello zaino c'era sempre, piuttosto lasciavo a casa i libri di mate, mica che mi succede qualcosa di fondamentale e non ho una pagina su cui scriverlo. E a quei tempi ogni giorno sembrava mi succedesse qualcosa di fondamentale, fosse anche solo un'idea, un progetto, un proposito.

Dopo l'anno scorso mi sono ripromessa di non fare bilanci durante l'estate, il tempo lento e vuoto, ozioso e sospeso delle vacanze non genera in me alcun pensiero positivo. L'immobilità spinge i miei pensieri in una direzione pessimistica, ho bisogno del movimento per poter vedere il bicchiere mezzo pieno (e di non essere in sindromepremestruale, ovvio). Sennò va a finire che leggo Twilight, per dire.
Però settembre fa tanto "to do list".
E io adoro le "to do list".
Adoro scriverle intendo, poi spuntarle è un altro paio di maniche.

Quindi, avanti, cosa voglio fare di me quest'anno? È strano, io so sempre cosa non voglio, il che non significa che sappia chiaramente cosa voglio, anzi. Questo è il problema nella mia vita, ed il motivo per cui molto spesso nelle cose ci sono rotolata dentro, senza sceglierle consapevolmente ma trovandomele sotto i piedi mentre stavo cercando di evitarne delle altre, molto più chiare nel loro essere "io questo assolutamente no". Il che non è del tutto negativo, spesso nell'evitare alcune strade finisco su altre insperate fino al minuto prima.

Quindi non è che abbia le idee chiare. Ho un'immagine che voglio dare a me stessa, che non si concretizza in azioni specifiche, ma più in un atteggiamento positivo e propositivo che non ha una forma solida. Sembra più una musica, un profumo, un qualcosa che si diffonde in giro ma che non si può afferrare.

Ecco.

Poi dite, non spunti la lista.
Avercela la lista.
Come si fa ad acciuffare quella sensazione, quel senso di potenziale di me?
Se lo capisco mi vedrete cambiare.
Altrimenti riscriverò questa cosa anche l'anno prossimo e quello dopo.
Io stimo le persone che sanno quello che vogliono e lavorano fisse su quell'obiettivo. Le stimo e le invidio, anche.
Perchè io, più che fare, tendo.
È questa la mia forza. E la mia sciagura, insieme.