26 febbraio 2012

È andata così



Lee contentissima, le bimbe come fossero a casa loro, le mamme - il prosecco alle tre di pomeriggio mi rende oltremodo socievole - quindi bene. E sono ancora viva.
Direi che è andata alla grande.

A te che 6

A te che cresci e lo capisco dall'ingombro della tua manina nella mia. Che hai le amiche immaginarie e quel talento nel disegno che non hai certo preso da me.
A te che parli da sola immaginando domande-risposte-situazioni, e questo sì, l'hai decisamente preso da me.
A te che io a volte sono così severa eppure sento sempre che tu capisci il perché.
Che ogni tanto io ti guardo dormire e mi viene da piangere dal bene che ti voglio. E mi chiedo se riesci a percepirlo tra le pieghe dei rimproveri e delle giornate difficili.
A te che sai delle cose che non ti ho insegnato io e mi ritrovo gelosa di chi l'ha fatto. Che hai sempre quella risata di pancia in grado di spazzare via ogni mio pensiero in un secondo.
A te che sei la cosa più bella per tuo fratello. Che mi tiri matta tutte le mattine, a decidere cosa indossare, e poi ridi, scappi e ti fai vestire dalla nonna che ti asseconda.
A te che quando pensi sei tutta concentrata. Che misuri la tua altezza sul lato destro del mio corpo e sei contenta di vedere quanto stai salendo.
A te che perdi dentini e acquisti sicurezze.
Che sarai la più brava della tua classe e dovrò spiegarti che non è da quello che dipende il mio amore. Che non sai cosa significhi la parola "sarcasmo", ma sai già produrne distillati purissimi.

A te che oggi fai sei anni e io non ci credo che mi ricordo di te di sei giorni, e sembra un attimo fa, ed è stato un attimo fa, buon compleanno.

21 febbraio 2012

Passi

Il problema delle persone che corrono è che poi si invasano a tal punto che pensano che al mondo gliene freghi qualcosa. Il problema delle persone che corrono è che poi stanno talmente bene che sentono il dovere di indottrinare l'universo sui benefici del running.
Quando io ho iniziato mi sono ripromessa di evitare entrambe le cose qui sopra. E infatti di solito non ne parlo a meno che non venga direttamente interpellata sull'argomento, e anche il quel caso cerco di stemperare i toni entusiastici che possono essere interpretati come tentativo di convincimento a.
Io non voglio convincere nessuno, anzi. Io sono una che corre sola, che ci sta bene, che mentre corre parla ad alta voce con se stessa, unendo così due cose che sa fare bene in un unico istante (sì, questo è il momento in cui il lettore si sorprende della capacità respiratoria della scrivente, ché se riesce a correre e a parlare nello stesso momento, significa che abbiamo fatto grandi progressi rispetto all'inizio).
Non scriverò qui degli enormi benefici per il sistema cardiocircolatorio dati dalla corsa, se volete leggere di quelli andate sul blog di Linus.
Però una cosa della corsa la voglio dire.
Mi piace correre perchè è semplice.
Perchè basta mettere un passo dopo l'altro e si va avanti.
Che ci vuole a fare un passo?, niente no?, e quindi via, senza stare lì a pensare agli ostacoli che incontrerai, al pezzo che più avanti sarà in salita, al fiato che ti mancherà.
"Un passo alla volta" è lo stato mentale che ti permette di smontare le cose complesse e renderle semplici.
Hai in mente la strada che vuoi fare e la fai.
A volte la decidi prima, a volte capisci in un attimo che di là non vuoi andare e allora svolti, giri, cambi direzione tenendo il ritmo, continuando in quella piccola elementare cosa del mettere un piede davanti all'altro. È facile e porta lontano. Ché nella vita siamo già tutti troppo abituati a vedere là in fondo gli obiettivi da raggiungere, e ci viene l'ansia che non sappiamo come fare, che sono così lontani - difficili - complicati, e quanto lavoro c'è da fare, e chissà se ne sono capace.
E invece no, si fa così, un passo alla volta, piccoli traguardi quotidiani, gesti elementari, cose minime, da infilare come perline in una collana, come passi in una maratona. Si sceglie una direzione, l'obiettivo è là in fondo, ed è ovvio che per raggiungerlo si possono prendere varie strade, ma una volta che se ne sceglie una si va.
Semplicemente.
Un passo dopo l'altro.
Senza pensare che quella strada implica fatica e rinunce.
Perché mentre ci sei sopra a consumarti le suole, a perderci fiato e battiti di cuore, il più delle volte hai la conferma che era proprio lì che volevi andare, e sei contenta, e muovi i tuoi piedi in avanti, veloci, e in un niente sei già in quell'altrove che prima vedevi solo da lontano.
Io corro da sola, dicevo, ma in due è la meraviglia. Perché diventa uno sport di squadra e laddove io ho voglia di fermarmi, per la difficoltà della strada, la pigrizia, quell'ostacolo che non avevo considerato, subentra l'energia, lo sprone, l'incoraggiamento, la sfida di chi mi corre accanto. Ed è bellissimo, poi, arrivare al traguardo insieme e vedere la propria soddisfazione riflessa nel volto dell'altro, e ritrovarsi ancora più uniti, per la strada fatta, gli ostacoli superati, l'obiettivo raggiunto.
Si fa fatica, tanta, e guai a non metterlo in conto. Ma nei piccoli passi che si fanno, anche presi singolarmente, c'è già dentro il concetto stesso del traguardo. E poi quando lo si raggiunge, il traguardo, i passi li si può anche dimenticare, loro, piccolini, che ti hanno portato fino a lì, perché a quel punto riesci ad avere la visione d'insieme.
Quindi, durante i passi e alla fine l'obiettivo.
Mi piace la corsa. Mi aiuta a sistemare i pensieri e a capire tutto.



Ok, ho finito. Possiamo tornare a parlare di scarpe e sindromepremestruale, ora.

"Il genio tace"

Nella cucina dei miei genitori, bella, luminosa, da cui nelle mattine limpide vedi distintamente tutto l'arco alpino, c'è un grande tavolo intorno al quale anni fa mangiavamo in quattro e ora in due. Nella cucina dei miei genitori la lavastoviglie è entrata da poco, regalo mio e di mio fratello, stanchi di vedere scomparire mamma a metà di ogni pranzo familiare che, con bimbi annessi e connessi, diventava sempre più impegnativo. Nella cucina dei miei genitori ci sono foto di bambine e di Roo, unico maschietto basso della famiglia - poverastella. E poi lì sul muro, ben visibile, una lavagnetta di quelle che ci si scrive sopra con quei pennarelli puzzolenti che li puoi cancellare con una passata di straccio. O di dito. Gli impegni sulla lavagnetta cambiano spesso, i miei genitori non sono persone così tecnologicamente avanzate da poter inserire i promemoria nel telefono, e se anche dovessimo provvedere noi, è facile che al suono del promemoria loro poi vadano a spegnere il forno. Quindi scrivono su questa lavagnetta le cose che hanno da fare, cene, corsi, visite, nipoti da gestire, impegni vari. Dicevo, le scritte sulla lavagnetta cambiano sempre, tutte, tranne una. Si tratta di una frase che mio padre ha scritto per me qualcosa come quindici anni fa, quando lui credeva ancora che quei miei moti coloriti fossero il frutto di un fervore adolescenziale e non di un preciso aspetto caratteriale.
La frase è: "La ragione parla, il torto urla". Quale di queste due parti sarà mai stata riferita a me? Ecco. Che io poi continui a ritenerla discutibile è un altro paio di maniche, ma comunque.
Il problema è che io e mio fratello siamo sempre stati il giorno e la notte. Lui pacato, responsabile, apparentemente adulto da sempre, era la classica persona che una come me detestava avere di fronte: quelli che non si scompongono mai, che qualsiasi cosa dicano la argomentano in lungo e in largo, che hanno il tono da conferenzieri, che non fanno mai una sbavatura, e che quindi dall'alto del loro modo "giusto" possono permettersi di dire immense cazzate, perchè sanno dirle talmente conformi a ciò che l'educazione richiede che sembrano vere per partito preso.
Io.
Ecco io no.
Nel fervore di una discussione io sono quella che alza la voce, il tono, condisce tutto con qualche insulto, sbatte i piedi, volta le spalle, sbaglia. A quel punto, come sempre e ovunque, si passa dalla parte del torto giocoforza. Non c'è niente da fare, è così, se sbagli i modi difficilmente i contenuti verranno tenuti in considerazione. Non ho imparato ancora, ma ho capito. Ho capito tanto tempo fa, che anzichè farsi prendere dalla discussione, con dei modi che non puoi fare a meno di rendere inurbani, è meglio fare un bel sorriso e alzare le mani in segno di resa.
Quindi sotto quella frase "la ragione parla, il torto urla", dopo anni di battaglie perse su forma/contenuto, io ho pensato bene di aggiungere "il genio tace".
A modo mio ho vinto.
Il fatto è che poi ho due figli che sono anch'essi il giorno e la notte. E per quanto io non possa che apprezzare Lee, la sua pacatezza, la sua maturità concentrata in soli sei anni di età, avendo i precedenti che ho non posso fare a meno di ascoltare Roo, che manifesta le sue idee nel modo più sbagliato possibile - pari pari al mio - e nonostante si esprima così, violentemente, io lo sto a sentire. Perchè è carattere, non ci si può fare niente, lui passerà dalla parte del torto sempre per il modo in cui esprime le cose, a prescindere dal fatto che ciò che dica sia corretto o meno. Io lo capisco. Siamo uguali io e lui, ma io ho giusto quegli anni di esperienza in più di dibattiti falliti, e se per il momento mi limito ad ascoltare al netto dei suoi modi, prima o poi verrà il giorno in cui gli spiegherò come deve fare. Perchè ad argomentare in modo pacato non ci riuscirà mai, io ne sono l'esempio. Ma può sempre tacere.
"Il genio tace" è una scuola di vita. Non abbiamo altro modo noi impetuosi per vincere un dibattito.
Perchè imparare la pacatezza, ovviamente, è escluso. Non ci si riesce. Non ce la si fa.
Il silenzio a volte è il più forte degli attacchi. Noi a modo nostro vinciamo così.
Che bel carattere che abbiamo.

20 febbraio 2012

Uggia grigia

IlNord - tutto attaccato perchè è un concetto tutto attaccato anch'esso -  non è il posto giusto in cui vivere per una persona meteoropatica.

Alla Sua frase, volutamente da presa per il culo, "ma dai, Lara, il sole devi averlo dentro", prima ho riso - tanto - e poi ce l'ho mandato.
Se va avanti così, io avrò bisogno di carboidrati, birra, amiche e parole delicate.
Non necessariamente in quest'ordine.

Per non parlare di come mi stanno i capelli con questo tempo.

17 febbraio 2012

Compleanno a Snobville

A Snobville il compleanno è quella cosa che devi festeggiare in una sala giochi invitando tutti i bambini che conosci, e pure qualcuno che incontri per strada, che fa numero e sembra che sei più importante. Sto parlando del compleanno dai quattro anni in poi, eh, mica dei 18, quando immagino si userà noleggiare un charter per l'intera classe del liceo e portarla a Ibiza, per dire. E io avrei solo voglia di scappare, fortissimo e molto lontano.
A Snobville il compleanno è quella cosa che chi compie gli anni deve fare un regalo a tutti quelli che vagamente dimostrano partecipazione all'evento. Del tipo: noi-trenta-bambini-della-tua-classe ti cantiamo tanti auguri, ti costruiamo una squisita corona di cartone con sopra la porporina che spargerai a casa tua per l'intero anno successivo, e in cambio tu porti per ciascuno di noi-trenta-bambini-della-tua-classe un bel sacchettino pieno di caramelle e possibilmente qualche giochino.
A Snobville il compleanno è quella cosa che poi quando fai una festa devi prevedere una sorta di bomboniera, un po' più impegnativa del sacchettino di caramelle mi raccomando, da dare ai bambini che hanno partecipato e ti hanno fatto il regalo.
A Snobville il compleanno quindi prevede torte giganti, perché il più delle volte se si tratta di bambini di quattro anni alla festa si fermeranno anche le mamme e mica le puoi lasciare senza torta, no, altrimenti che compleanno sarebbe, e quindi per una festa di  quindici bambini - in sala giochi, eh, e non dimenticate le calze antiscivolo - devi prevedere una torta per almeno trenta persone.
E l'animazione, ché sennò i bambini di oggi si annoiano, e il truccabimbi, e i triplocarpiati, e sticazzi. E io avrei solo voglia di scappare, fortissimo e molto lontano.
A Snobville il compleanno mi mette ansia per tutta la socialità forzata che si porta dietro e col senno di poi avrei fatto bene a partorire entrambi i biondini in pieno agosto, come Roo.
E invece.
Invece Lee fa gli anni tra poco e siamo alle prese con il compleanno. Che pur abitando a Snobville io mi rifiuto di festeggiare come Snobville comanda. Non riesco a rassegnarmi alla perdita della semplicità.
Anche perchè a Lee dei trenta bambini della sua classe, che comunque verranno omaggiati del sacchettino di caramelle e giochino, ne interessano sei o sette (e suo fratello ne sarebbe escluso se non fosse che è appunto suo fratello). Tutte femmine, ché siamo nel periodo che "i maschi fanno schifo", e il fidanzatino - unico maschio che non fa schifo - che non inviteremo perché non ha ancora l'età per apprezzare di essere l'unico gallo di un pollaio con sette galline, me l'ha detto la sua mamma, donna intelligente e mia amica.
Io mi ricordo compleanni in casa, con la mamma che aveva fatto la torta, e le candeline da spegnere, e regali ragionevoli, "pensierini" che uno comprava in cartoleria e ti portava impacchettati con la carta bella, e mangiavamo la torta, e c'era la coca-cola che di solito mai, e giocavamo con i giochi che c'erano in casa e poi tutti giù in cortile come ogni pomeriggio.
Ora le feste qui sono dei balli delle debuttanti, le torte sono castelli a più piani, i regali sono status symbols mediante cui le mamme combattono una guerra inesistente e la tensione è altissima. E io avrei solo voglia di scappare, fortissimo e molto lontano.

Quest'anno Lee ha preferito nuovamente la festa in casa - casa nostra certo, da pulire, sistemare, addobbare, proteggere, nascondere la cristalleria, alzare i massimali della polizza, quelle cose lì - ma ho l'impressione che sarà l'ultimo anno. Perché comincia ad avere quell'età un po' stronzetta in cui l'erba del vicino, e l'erba del vicino a Snobville è una cosa veramente pericolosa. E spesso inarrivabile. E quindi, mentre cerchiamo di insegnarle a pensare con la sua testa, siamo consapevoli che dovremo comunque mediare tra quello che lei vorrebbe, quello che noi riterremo giusto e quello che sarà possibile fare.
Sarà una bella lotta.

La sto vivendo bene, non si vede? È l'ansia pre-evento, poi entro "in prestazione" e mi passa.
Ma al momento avrei solo voglia di scappare.
Fortissimo.
E molto lontano.

15 febbraio 2012

Un risveglio così

Interno giorno ore sette di mattina. Un letto grande con dentro una donna alta che non ce la fa ad aprire gli occhi, il suono di quattro piedini nudi ancora caldi di piumone che attraversano di corsa il salotto e si gettano su quel lettone con i loro 35 chili totali di entuasiamo, per ritrovare vicino a me il calore appena lasciato. Mi strisciano vicini, si mettono sotto le coperte, le teste contro la mia, con quel profumo di sonno, le faccette ancora gonfie dei sogni fatti, la voglia di parlare dopo nove ore di silenzio (più o meno, perchè una parla nel sonno, l'altro ride).
I bambini alla mattina sono sereni, hanno lasciato le battaglie del giorno prima nei loro sogni e non hanno ancora affrontato sfide e tensioni che inevitabilmente li aspettano fuori dalla porta di casa.
E parlano.
Parlano tanto. Adoro sentirli parlare al mattino, tra di loro, intonano pezzi di canzoni, parlano di amici comuni, chiedono attenzione che io con la faccia sprofondata nel cuscino stento ancora a dare, ribattendo con qualche mugugno, qualche a-ha, qualche "ancora cinque minuti". E loro mi girano di forza, che li devo guardare in faccia mentre parlano, altrimenti pensano che non li ascolti, e loro parlano, cantano, parlano e chiedono.
Io che nella prima mezz'ora da quando apro gli occhi sono più simile ad un cactus che a un fiore, che detesto le domande perchè implicano la mia partecipazione, che non voglio parlare, non voglio ridere, non voglio niente e nessuno, mi trovo quotidianamente di fronte a questi due esserini meravigliosi che cambiano il colore delle mie mattine e del mio umore del risveglio.
E che domandano. 
Roo: "Ma a cosa servono i capelli?"
Lee: "Come fanno i papà a mettere i bimbi nella pancia delle mamme?".
Ho risposto ad una sola di queste due domande, del resto sono abituata a giustificare il senso dei miei capelli. Ma, così a occhio, ho come l'impressione che il problema sia solo rimandato. 
Non si è mai pronti.
Mai.

14 febbraio 2012

Libri

È che ci si dovrebbe prendere il tempo di leggere. Di vivere vite parallele collocate duecento anni fa o l'altro ieri. Di conoscere persone e personaggi e di svelarne le pieghe. Chi legge vive più volte, credo. E io leggo. Ultimamente tanto. Io sono di quelle che i libri se li mangiano, letteralmente divorati, letti velocemente, completamente immersa, estranea, lontana, vorace. Scegliendo i libri sulla base della copertina, spesso mi imbatto in colossali delusioni. Che comunque finisco. Quando invece i libri mi vengono consigliati, li tratto con l'attenzione che dedicherei a chi me li ha suggeriti.
Ecco cosa ho letto ultimamente. Sarebbe meglio dire ecco cosa mi è piaciuto ultimamente. Perché dall'inizio dell'anno ho letto proprio tanto, ma certi libri ecco anche no. Non vuole essere un suggerimento, anzi. Io difficilmente consiglio libri. In primis perchè ne sono fortemente gelosa, soprattutto di quelli che ho adorato. Secondo, perchè ritengo ci voglia una gran presunzione per suggerire un libro a qualcuno. Posso dire cosa mi sia piaciuto o meno. Ma non significa che io abbia la pretesa di sapere con certezza che un certo libro possa piacere a qualcun altro. Siamo così dannatamente singolari, tutti. 
E ognuno ha la sua storia, quindi laddove io trovo conferme o smentite della mia, qualcun altro potrebbe non trovarci nulla. E io non potrei tollerare la delusione.
A volte invece suggerisco dei libri solo perchè alla fine mi si dica "guarda, sembra proprio che ci sia dentro tu". Ma devo essere davvero davvero davvero amica per arrivare a tanto.
Ecco le mie ultime letture.


Jonathan Franzen "Le correzioni". È un libro incredibile, di quelli capaci di portarti via, che non riesci a lasciarlo lì, e non mangi, e sei sempre incollata a quelle pagine, e ci sei immersa totalmente. Non sei più tu, non sei più a casa tua, sul tuo divano. Sei nel salotto dei Lambert, nella loro cantina, nei ristoranti di Denise, tra i bambini di Gary, in Lituania con Chip. E senti tutto. Distintamente. Tutto il dolore, la frustrazione, le piccinerie della piccola borghesia provinciale americana, le ambizioni deluse, i desideri non realizzati, gli errori e le correzioni. Sei lì e senti tutto. E in più di un'occasione pensi "anche meno, grazie". Lo stomaco, questo libro ti colpisce lì.

George Orwell "La fattoria degli animali". 
Sembra una prova generale dei temi che saranno trattati in 1984, ma qui il registro non è drammatico, si attesta sul sarcastico e lì ci resta. 
Certo se leggi prima 1984 questo sembra inevitabilmente incompleto, irrisolto, leggero. In realtà c'è già dentro tutto. La capacità di Orwell di farmi detestare i suoi "cattivi" mi lascia sempre senza parole.
Con la solita sensazione orwelliana di nausea per quel genere di ingiustizie che sai che non verranno mai sanate.


Luciano Bianciardi "La vita agra". Meraviglia del decandentismo milanese. La Milano di Bianciardi è il contorno di un’esistenza penosa e precaria, dove per precarietà si intende l'impossibilità di mettere una pagnotta in tavola, trascinata tra pasti a basso costo, lavoro mal pagato, sesso amaro dentro letti sfatti di pensioncine squallide. Il tutto, nel bel mezzo di una metropoli grigia e insofferente, fredda e umida, piena di palazzotti brutti. Milano, appunto. Leggere Bianciardi che si lamenta del traffico del 1962 è quasi toccante, lo leggi con quel sorriso dolceamaro con cui si ascoltano i racconti dei nonni a base di castagne, vino rosso e stufe a legna. Però la differenza tra il 1962 e oggi non è solo una questione di inquinamento, urbanistica degenerata e degenerante e carattere effettivamente bruttarello dei milanesi (presenti esclusi ovvio). Quello che fa più tenerezza, quello che nonostante tutto teneva vivo - e combattivo - Bianciardi e oggi sembra non esserci più era la possibilità di un futuro. Ora siamo più ricchi, infinitamente più fortunati, con una salute migliore e con degli strumenti a disposizione che nel 1962 si scordavano. Ma per certi aspetti sembra più agra la vita di adesso. Gli occhi. Sono gli occhi la cosa che questo libro colpisce di più. Si riempiono di nebbia, di grigio, di fumo delle stufe.

Lev Tolstoj "Anna Karenina".
Ecco, parliamone.
C'è più psicologia femminile in queste ottocento pagine che in un qualsiasi corso universitario umanistico. C'è tutto qui, c'è una donna vera, immensa nei suoi pregi e nelle sue contraddizioni, nelle sue debolezze e nei suoi difetti.
Andrebbe fatto leggere a qualsiasi persona voglia capire le donne. Sempre che esista.
Cuore. Si perdono dei battiti per strada, ma tanto da queste parti i battiti di cuore non li stiamo più a contare.

Philip Roth "Ho sposato un comunista". Quando è un premio Pulitzer a scrivere lo senti. C'è un altro spessore, un'altra densità, una fluidità collosa di qualcosa che ti resta attaccato addosso. Il contesto non semplice da capire, quello dell'America del Maccartismo, impregnato di politica locale, dell'importanza della stampa, della cronaca rosa accanto alla lotta proletaria, dell'incoerenza e della debolezza dei suoi personaggi, è tutto molto difficile. E immensamente bello. Non leggero, no. È un libro che pretende attenzione sempre.
E fegato.

David Nicholls "Un giorno". "Comico, intelligente, malinconico, questo libro cattura l'energia sentimentale delle grandi passioni: i cuori spezzati, l'intricato corso dell'amore e dell'amicizia, il coraggio, le attese e le delusioni di chiunque abbia desiderato una persona che non può avere". Ecco, dai, io sfido qualunque donna a non comprare un libro descritto così. 
Non aggiungo altro, leggetelo. Poi magari ne parliamo.
Pelle. C'è di mezzo la pelle, i brividi, il tatto, il calore. Tanta pelle, questo libro.


Cioè io quando leggo, si è capito?, salto un po' di palo in frasca.
E poi ho letto Paolo Nori. Che mi ha cambiato prospettiva sui libri in mille e più modi. Ci sto ancora riflettendo. Ho bisogno che sedimenti prima di parlarne.
E a voi? Quali libri? E dove vi hanno colpito?

10 febbraio 2012

Il mio tempo

Io non so vivere bene il tempo che passa. Non è una cosa legata alla mia età, è più in generale, devo averla sempre avuta, anche se in forme diverse, ho l'ansia delle cose che sfuggono, del non arrivare per prima, del tempo che ha il senso che sai inventare per lui e ha il colore che gli dipingi addosso ma poi quando è passato e lontano sembra che quel colore lì non lo sai più ricordare, e allora ti sembra tutto nebuloso, con quel colore che ha il cielo senza sole alla mattina presto, che non sapresti dire che colore è, forse beige, ma mica puoi dire che il cielo è beige, dai, il cielo non può essere beige e invece, ecco il tempo quando è passato assume quel colore lì, quel colore che non sai dire, quello delle foto vecchie della nonna, con il bordo zigrinato e quelle facce intense e quei capelli e quei vestiti festivi e severi.
Io non so vivere bene il tempo che passa. Mi ricordo che quando ero bambina e viaggiavamo in autostrada, io ero contenta quando superavamo le altre macchine perché così saremmo arrivati per primi, e ci avremmo messo meno tempo degli altri, di quelli con le macchine che restavano indietro, ma poi ci fermavamo a fare benzina e tutto il tempo che avevamo mangiato agli altri veniva buttato via e mi ricordo che io in quel momento volevo piangere perché tutti ci superavano di nuovo e sarebbero arrivati prima di noi, ma mica puoi metterti a piangere perché ti superano in autostrada, vallo a spiegare "non so vivere bene il tempo che passa", se dici una frase così a otto anni c'è il caso che papà poi finisca fuori strada davvero, e allora niente, ascolti De Gregori nel mangiacassette e non ci pensi più ma quell'inquietudine lì non sono mai riuscita a cancellartela del tutto.
Io non so vivere bene il tempo che passa, e a lezione di pianoforte la mia maestra metteva il metronomo perchè diceva "sennò corri", che se sapevo bene un pezzo poi andava a finire che io ci correvo sopra con le dita, che avevo fretta di farglielo sentire tutto subito, come quando vuoi dimostrare a qualcuno che sai una canzone e la canti senza rispettare i tempi della base che ti canta sotto, perchè non vedi l'ora di arrivare a quel pezzo lì, quello che ti viene proprio bene, ecco io così, uguale, non riuscivo a trattenermi e a far andare le dita a un tempo ragionevole, e allora lei mi metteva il metronomo che è uno strumento un po' stronzo, perchè sta lì e ti scandisce le battute in quel modo definitivo, e tu sai che tu il metronomo lo senti finchè non vai a tempo, perchè se il suo tempo imposto ti calza a pennello sulle battute non lo percepisci più. Ma a me avere lì una cosa che nel suo moto oscillatorio - destra sinistra destra sinistra - mi segnala il tempo che passa, ecco a me questa cosa ha sempre messo addosso una certa ansia, che io al tempo che passava non ci volevo pensare.
Io non so vivere bene il tempo che passa e il risultato è che sono sempre stata vorace di risultati, di obiettivi da raggiungere, di cose da fare, sono uscita di casa ad un'età che adesso io li vedo quelli che hanno quell'età e mi sembrano ragazzini, e infatti forse ero ragazzina anch'io ma mi sentivo grande, adulta e pronta, salvo poi chiamare mamma "chè non so dove si paga la tassa dei rifiuti e tante altre cose, non so", e c'era quella casa da ristrutturare e poi quell'altra, e persone da chiamare da adulto a adulto e c'era da diventare grande e firme da mettere e impegni da assumersi, e ho fatto figli ad un'età che per Milano è un'età giovane, e infatti ero giovane e li volevo fare da giovane, perché volevo fare tutto subito di modo che poi sempre da giovane avrei avuto ancora vita, energia, voracità e obiettivi da raggiungere, e allora non ero certo una bambina ma io li vedo ora quelli che hanno quella stessa età di quando io ero in sala parto e mi sembrano tanto giovani, molto più di quanto non fossi io solo sei anni fa.
Io non so vivere bene il tempo che passa ma il tempo passa a prescindere dal fatto che io lo sappia vivere bene e allora devo respirare profondo e guardare di cosa l'ho riempito quel tempo che è passato e vedere i colori che gli ho versato addosso, e allora mi rendo conto che pur non sapendo vivere il tempo che passa, nel "mentre", nel "dunque", nelle cose che ho fatto l'ho riempito davvero bene.
E allora respiro. E vado avanti. A colorare nuovo tempo che passa e che io non so vivere bene.

8 febbraio 2012

Morra

Il problema è che i meccanismi difensivi mancano sempre di qualcosa. Come in quel gioco, sasso-forbice-carta, in cui pensi "se metto sasso vinco sicuro", e invece no, anche il sasso ha i suoi punti deboli. E con le persone è così.
Puoi solo pensare di sfoderare la difesa migliore, quella che ti sembra più adatta alla situazione, ma può dirti bene o male - al solito.
Che capiti una cosa cosa o l'altra non si può sapere a priori, altrimenti sapresti quando mettere sasso o quando forbice, ma la vita non è mica così facile cara mia, anzi, a volte ci prova proprio gusto a prenderti per il culo. Quindi no, non lo sai, vai per grandi tentativi e mentre sei lì che dondoli il braccio a destra e a sinistra pensando a cosa ti giocherai, ti rendi conto che stai già facendo l'errore che ti sarà fatale: chè tu pensi alle tue mosse come meccanismi di difesa, chi vince di solito pensa a quelle stesse mosse come armi d'attacco. Eppure sono le stesse. Sasso. Forbice. Carta.
La differenza sta nell'atteggiamento.

6 febbraio 2012

La punta

Io sembro una persona aperta. Peggio. Sembro senza filtri. Parlo tanto, sempre, riempio i silenzi di chiunque con parole mie, a volte rido, a volte piango, spesso ironizzo, raramente glisso. Per cui sì, ci sta, si può anche arrivare a pensare di conoscermi bene. Perché rendo tutto apparentemente accessibile, ce l'hai davanti, è lì, sembra quasi che tu lo possa toccare, pregi e difetti, tutto a portata di mano, niente è escluso, come un quadro in cui si forma un'immagine gettandogli addosso colori a caso.
Il risultato di tutto questo è che ci sono tante persone che "io ti conosco bene". E se questa è una frase che adoro quando a dirla è qualcuno che mi conosce davvero, nella maggior parte dei casi è solo una forma di presunzione che mi lascia sempre sconcertata.
Non è emblematico il fatto che l'unico ad avere la certezza di non conoscermi del tutto sia Lui?
Non che pretenda di essere chissà quale grande mistero, non lo sono, ma oltre a dover considerare il fatto che neanche io mi conosco tanto bene, ho affinato tanti e tali meccanismi difensivi della mia personale armellina - per banale che sia - che pensare che siano le quattro(mila) parole che dico a mettermi a nudo è quantomeno frustrante.
Parlo tanto io, è vero.
E da un anno scrivo anche.
Ma come ho già detto quello che esce è solo quello che io decido di far uscire. E quando qualcuno si comporta come se fosse "in casa", quando io so benissimo che al massimo è sul pianerottolo e l'interno non ha neanche iniziato a intravederlo, ecco, scalpito.
Che cosa sai di me, avanti, spiegamelo. Dimmelo tu chi sono, potresti anche essermi utile.
Alzo un sopracciglio.
E sorrido. Ma è un sorriso amaro di chi pensa "la prossima volta meno, la prossima volta non, la prossima volta invece no", sapendo che poi fallirò ogni nuova intenzione.

Quando succede qualcosa che conta io taccio.
A lungo.
Finché non l'ho capita, metabolizzata, elaborata in qualche modo.
Quando parlo è perché ho finalmente capito che versione - esterna - voglio darne.
E quella versione non è più mia.

4 febbraio 2012

Non vorrei ma devo


Cioè la situazione è questa.
Ho l'influenza.
Non respiro bene.
Mi fanno male le ossa.
Non ho niente da mettere.
Ho anche le mie cose.
Due biondini bassi con l'otite.
Quello alto che guarda il 6 Nazioni.


Per tirarmi su, tocca fare la Banoffee.
Non vorrei eh, ma devo.

[La ricetta che seguo dice, testuale, "apporto calorico devastante". L'ho annoverato tra i buoni motivi per].

Ci potrei stare (Italia edition)

Mi innamoro spesso.
Di libri, di parole, di canzoni, di persone, di posti.
E di città. Che è un concetto diverso da "posto", perchè laddove questo è circoscritto a pochi metri quadri, la città invece include tutto il suo essere, a prescindere dal conoscerla interamente o meno.
Amo Milano per vari motivi di cui ho già parlato. E anche se sembra una città incapace di farsi amare, dove lo sport più diffuso è quello di lamentarsene, io la amo. Che lo so che è del tutto irrazionale, ma l'amore per una città, i suoi simboli, i suoi luoghi, le sue piazze, non può che essere irrazionale. O meglio: esistono forse forme d'amore non irrazionali?

Amo Roma. Non è che ci voglia molto, soprattutto se la vivi solo in vacanza, e ti lasci sedurre dai suoi tempi dilatati, dai suoi viali immensi, dal giallo del tramonto e dalle sue piazze. Roma è bella e ti fa sentire bella, costantemente sul set di un film che stai girando solo nella tua testa, con quelle scenografie, quell'architettura, quella luce, quel cielo che esistono solo lì. A Roma mi perdo spesso e volentieri. Cammino e lascio che la città mi scorra intorno. Trovo nuove vie, nuovi vicoli, nuovi raccordi, è talmente tutta da scoprire che forse perdercisi è solo un modo come un altro per farlo.

E poi.

Amo Modena che mi ha adottato ed è un gioiello, una bomboniera, dove tutto sembra accessibile, facile, a portata di mano. È tutto così bello, vivo, curato, eppure così pulsante, così goloso, cioè sei dentro in questa città con le luci del centro che rinforzano il giallo delle case storiche e i ciottoli delle vie del pedonale con la sensazione che sì, lì potresti starci benissimo. Poi assaggi la cucina e confermi quest'idea [poi torni a casa, ti pesi e cambi opinione]. Modena è bella e orgogliosa, austera e golosa, è una città possibile e ogni volta che ci torno passo il tempo con il naso all'insù a cercare il solito ultimo piano con travi a vista da sognare di acquistare.

Di Bologna mi ricordo soprattutto quanto mangiavo. Ero in uno strano periodo di notti in bianco per svariati motivi, e riempivo il mio disagio da mancanza di sonno con piatti arancioni di ragù, goderecci come lei. Bologna è la prima città in cui ho seriamente valutato di trasferirmi, immaginando una vita fatta di camminate attraverso portici, Piazza Grande, torri storte, Montagnola, gite a S. Luca, carboidrati e quell'accento che mi portava via. Di Bologna ho un ricordo di tanta musica e arte, di amicizie che sembravano vere e sono durate un niente, di amori che sembravano grandi ed erano granelli di sabbia. È stata un po' una città miraggio: niente era ciò che sembrava. Tranne lei, bellissima.

Firenze è la città di mia nonna paterna, ne sento un legame anche se la conosco poco. Di Firenze ricordo case immense con un parquet scricchiolante, la soggezione di enormi arazzi alle pareti e mobili dalle forme preziose che odoravano di gommalacca. Ci riunivamo con quel ramo di famiglia che vedevamo raramente per vivere insieme le tradizioni della pasqua fiorentina, il Brindellone, lo scoppio del carro e la Colombina che torna indietro passando su migliaia di teste riunite in una piazza gremita in una delle ultime occasioni di stare con la nonna prima che l'alzeheimer le portasse via i ricordi e, anni dopo, il cuore.

Quando mi accorgo che mi sto innamorando di una città? Quelli qui sopra sono i miei grandi amori urbani. Ma ci sono altre città in cui ricordo di aver chiaramente pensato "ci potrei stare", per quanto valutate con la superficialità di un momento, di uno stato d'animo vacanziero, di un'idea balzana.
Molte, moltissime, città italiane: Torino, Mantova, Parma, Ferrara, Ravenna, Arezzo, Perugia, Bari, Trieste, Cagliari. Ma in particolare.
Lecce e il suo barocco, vissuta poco, in vacanza, schiacciata sotto il peso di un sole a 42 gradi. Lecce è il ricordo di un viaggio di sette giovani donne in autostop e l'indipendenza e il senso del farcela e il tornare ad apprezzare la rediviva cavalleria dopo tanto cavarsela da sole.
Palermo, il suo mercato, il pesce esposto, le grida in quel dialetto impossibile, i cannoli con la granella di pistacchi, una toccata e fuga per poi tornare al mare alle Eolie.

E poi Verona. Che non ci sono mai stata. Ma ci sarà sempre una piccola parte di me che ricorderà Verona, un aperitivo in Piazza delle Erbe, un giro tra le bancarelle e tante altre cose che sarebbero certamente successe. Ma questa è davvero un'altra storia. 

Che non racconterò.