14 maggio 2012

It's the end of the world as I know it (and I feel fine)


Il blog finisce qui.
Vi spiego.

Il problema non è internet, figuriamoci.
Il problema è l'uso che se ne fa.

Questo, è evidente, non è un blog di attualità, questo da sempre è nato-cresciuto-diventato un blog personale. Ma il fatto è che la vita privata in rete è come un pesce fuori dall'acqua, almeno per come intendo io "vita privata" e come intendo io "rete". Ed è abbastanza ovvio che qui dentro non c'è tutta la mia vita, ma è altrettanto ovvio che è quella che quando si arriva qui ci si aspetta di trovare. E questo innesca un duplice meccanismo, in entrata e in uscita.
Scrivere di sè - visto che gira o rigira sempre del mio ombelico e mondi annessi si parla qui - fa sentire esposti in una vetrina di fronte alla quale chi passa non può esimersi dal dare un giudizio. Per quanto leggero. Per quanto parziale. E leggere un blog personale crea un interesse intorno a, che nella forma si colora di affetto ma nella sostanza è curiosità.
E allora scrivi e ti racconti che è affetto, lo mescoli all'autocompiacimento del leggersi e del rileggersi, e a lungo andare cominci a chiamarlo così tante volte “affetto” che finisci col crederci davvero, e col dare valore a cose che valore non ne hanno. L'avevo già scritto una volta qui.
Il meccanismo si auto-alimenta, laddove più tu vedi affetto più offri storie di te che lo generino, in un vortice che ti porta a declassare tutto a “storie disponibili” anche là dove alcune di quelle storie invece meriterebbero protezione e condivisione preziosa. Ché alla mia amica, per dire - non interessa se io del suo matrimonio scriva sul blog, a lei interessa che io sia lì a guardarla negli occhi mentre percorre la navata. E so bene che una cosa non esclude l'altra, certo che lo so (ci mancherebbe), ma è il mio sguardo sulle cose ad essere diverso.
E questa smarrita capacità di vedere quella differenza - quel valore - è forse la cosa più dannosa che si possa fare, perché quando la perdi la perdi, non la perdi solo qui, la perdi ovunque e ovunque, e invece bisogna ritornare a distinguere. Distinguere le cose, e viverle non nell'ottica di come ne scriverai poi, ma guardandole dritte negli occhi e basta.
L'appuntamento fisso con questo posto, invece, diventa la lente distorta attraverso la quale filtrare la mia vita, come se fosse sempre qualcosa da scrivere, come se le cose diventassero più vere nella misura in cui prendono forma qui, nero su bianco. Ma non è così. Le cose esistono a prescindere dallo scriverne o meno, e anzi, hanno tanti più colori rispetto a quelli che poi io riesca a restituire raccontandole, ma io le filtro, le passo attraverso il setaccio della scrittura e in questo modo, per quanto raccontate con passione, le svilisco nel loro senso più genuino dell'esistere al netto di esistere-qui.
E in questo modo le vedo meno.

Il problema non è internet, figuriamoci, il problema è l’uso che se ne fa.
La vita vera non è sublimabile.
O c’è o non c’è.
E c’è nella misura in cui la proteggi, non c’è se la setacci - impoverendola tu per prima.

La mia vita privata, i miei successi, i miei difetti-ricordi-speranze, le mie persone care, qui si possono solo leggere. Io invece ho un vantaggio, io non ne posso solo scrivere, le posso anche vivere.
Se voglio.
E io voglio.
Voglio essere quella capace di andare a sentire il profumo che ha la pelle di un neonato, o l'abbraccio stretto di un'amica in difficoltà, o di commuovermi per quello che si sposa, arrabbiarmi davvero con tanto di nervi tesi e mani strette in pugni per un'ingiustizia, emozioni vere e forti che non saprei rendere davvero fino in fondo in parole e forse non ha neanche senso farlo. Non qui. Non così.
Voglio vivere le mie storie e per viverle devo proteggerle e per proteggerle devo valorizzarle e per valorizzarle devo circoscriverle e per circoscriverle devo riconoscerle e per riconoscerle devo guardarle negli occhi.

È stata una palestra preziosa questo blog, mi ha aiutato a capire tante cose, è stato terapia-contenitore-sfogo-tela bianca-confronto ed è stato un privilegio condividere i miei pensieri con voi che avete avuto la pazienza di leggermi fino a qui.
Sto mettendo lo scotch sullo scatolone, il punto alla fine di una frase, ma non cancello niente, resterà tutto qui, per me quando mi vorrò rileggere, per chiunque ci vorrà tornare. Non è un addio, è un arrivederci. Forse qui, forse altrove, non lo so. Sto dicendo "arimo", come quando da piccoli volevamo chiamarci fuori dai giochi per un po'. Per poi tornare. O cambiare gioco.

Voglio solo evitare di finire a colorare tutto con un unico colore e di diventare daltonica per incapacità di distinguere il rosso di un cuore dal grigio di un soprabito.

Allora cominciamo a separare.
I soprabito tutti a sinistra, qui dove ci sono briciole di me a 140 caratteri alla volta.
Tracce di una me che scorrono come scorre la timeline e che passano per lasciare il posto ad altre.

I cuori rossi invece tutti qui.

No, certo che non c’è link.
Allora non avete capito niente.

10 maggio 2012

L'impegno

Le consapevolezze. Quelle che nel mio caso arrivano con anni di ritardo rispetto a quando mi sarebbero servite di più. E invece.
C'era questa cosa che mi si diceva spesso, non l'ha detta una sola persona, no, l'ho sentita dire da tanti, inframezzata qui e là da qualche espressione colorita che la distinguesse, per tono, dalle altre: "come sei impegnativa".
Sembra una frasetta buttata lì nel bel mezzo di una discussione dai toni accesi ma contiene molto altro. Contiene una critica all'essere ingombranti, ingombranti di parole, sensazioni, colori, sentimenti, contiene il desiderio di aver di fronte qualcuno di diverso, di più leggero, superficiale, meno indagatore, meno esigente, meno pensante.
Meno me.
E io anziché reagire con una bella alzata di spalle, una risata in faccia, e andare per la mia strada, mi rimpicciolivo. Come se quel voler andare oltre la superficie fosse qualcosa di sbagliato. E allora cercavo di diventare piccola, io che non sono piccola né fuori né dentro, per essere meno ingombrante, meno impegnativa, perché impegnativa no, non va bene, ci vuole leggerezza, non si può essere sempre così esigenti, ma io - cazzo - ero esigente nella misura in cui la mia mole caratteriale, colorata, rumorosa, incasinata, analitica, manifestava anche qualche cosa di più vero, sanguigno, carnale, profondo.
E no, non andava bene questa cosa, se non poteva essere annoverata tra gli aspetti ludici, ma cosa vuoi fare.
Vaglielo a spiegare che tutto quello che ricevevano, tutto quello che guardavano accadere per mezzo di, non poteva essere distinto da quella che poi si attaccava con amore, e chiedeva, domandava, proponeva, che quell'essere impegnativa era la controparte di quello che prendevano quotidianamente.
Ma che razza di uomini ho incontrato nella vita che volevano solo quella leggerezza che io non sapevo separare da quello che sentivo? Ne ho visti andare via di questi uomini qui, puntando il dito sul mio essere sbagliata. Sbagliata perché chiedevo un impegno, e no, non un impegno per la vita, magari per una serata, per una settimana, un mese, quanto volevano, ma di esserci davvero. Di mostrarsi davvero. Di dare davvero qualcosa.
E invece niente, via, ciao.
Salvo accorgersi anche loro in differita di anni, che quell'essere impegnativa poi mancava moltissimo.
Ma se la consapevolezza arriva sempre in ritardo, una cosa che non ho mai tollerato è la mancanza di tempismo. E allora niente, andato quando non dovevi, quando poi hai capito io non.
Però quante lacrime.
Ché basterebbe un attimo con gli occhi aperti davvero per capire che se hai di fronte una persona capace di sorprenderti ogni giorno, non può diventare una bolla vuota solo perché tu non vuoi che ti si chieda impegno. E che se vuoi leggerezza allora non è lì che dovresti andarla a cercare.
Perché lì la puoi trovare eccome, ma c'è anche molto altro che non si può separare da.
Leggerezza e impegno nelle persone complesse non vanno a braccetto, sono proprio siamesi.
Quanto male in meno mi sarei fatta se fossi stata in grado di spiegarlo, di capirlo, di accettarlo, invece di darmi contro e sentirmi sbagliata per. Quante risate in più mi sarei fatta di fronte a quella frase che mi colpiva come un pugno nello stomaco, tutte-le-dannate-volte. Quante frasi mi sono venute in mente dopo per ribattere, in ritardo di anni, come le consapevolezze.
Le tengo lì.
Per un amico a cui spiegare perché la donna di cui potenzialmente si può innamorare come mai nella vita è anche quella che verosimilmente lo sfianca di più.
Per un'amica.
Per mia figlia e la donna che sarà.
Le tengo lì e sorrido. Meglio tardi che mai.

2 maggio 2012

L'ombelico

(Milano skyline)
Ho una storia d'amore che dura da anni.
È un amore di quelli belli incasinati, corrisposto il più delle volte, di quelli che si fa un sacco di rumore e poi silenzio quando meno te lo aspetti, di quelli fatti di alti e bassi, di bronci e sorrisi, di pomeriggi grigi e di verde di parco di sole, è una di quelle cose che sai che c'è e che ti fa sentire avvolta e abbracciata.
È Milano.
Ché lei è complicata e bella, e non si fa conoscere facilmente, e nasconde i suoi segreti più belli, ostentando facciate di ostilità e grigiore, ma bisogna saperla conoscere, conoscere bene, per accorgersi di quanto può dare. Che poi non lo so se è così per tutti, c'è chi ci vede solo i problemi, ma quando ti innamori ti innamori e allora cosa vuoi farci, la prendi per quella che è tutto incluso, e ti lasci accompagnare così nella tua irragionevole consapevolezza.

E poi non lo so, una volta avevo studiato sociologia urbana, che guarda tutti dovrebbero studiare sociologia urbana nella vita, e avevo letto il perché e il percome ci si innamora delle città.
E poi non lo so, una volta quando ero giovane giovane facevo questi collage di foto matte, dentro a cornici che ne istituzionalizzassero il senso, e mettevo insieme un po' di tutto, biglietti di concerti, cd che non, foto mie, frasi ritagliate dai giornali, un sacco di lettering autoprodotto e pay-off pubblicitari al netto del prodotto, e mi ricordo che c'era questa frase, scritta con un carattere bianco e graziato su fondo nero, niente di che, ma la frase era "ti sei mai innamorato di una città?", e io l'avevo tenuta da parte perché - non so - mi sembrava bella di per sé, mi sembrava racchiudesse una possibilità, quella di un amore diverso, diverso davvero, e mi piaceva, ma ancora no, non mi ero mai innamorata di una città, mi sembrava di sì ma invece no, il "mi sembrava di sì e invece no" era un leit motiv in quel periodo anche per le mie storie, che poi quando è arrivato l'amore-quello-vero ho capito che sì, altro che no, sì, quello era l'amore-quello-vero, e anche quando poi mi sono innamorata di questa città ho capito che sì, che lei era la città di cui mi ero innamorata.
Non è che non ne veda i difetti, o la difficoltà di viverla, o il grigiore, lo sporco e tutto quanto. Ma è come se ci fosse dell'altro, qualcosa di più alto, qualcosa che non riesco ad identificare con un posto unico, è l'atmosfera che ci respiro, è un po' come un colore, un profumo, di quelli che poi quando li senti ti riportano lì un mondo intero, è un abito che mi veste benissimo.
Io. Milano. Così.
La conosco, e la giro, e mi faccio portare a spasso con il naso all'insù alla ricerca di quel cielo che da lei sembra sempre mancare ma c'è e quando lo vedi, e quando c'è vento, sa essere di un azzurro che ce la fa, e ti senti amata corrisposta felice, perchè quanto è bella con quell'azzurro intorno io non ve lo so spiegare.
Quanto è brutta quando piove per mesi di fila poi, non vi so spiegare neanche questo, ma non è che non sei più innamorata solo perché non si presenta al meglio, sono una donna, ho passato (passo-passerò?) ciclicamente fasi da felpe sformate e capelli che ciao, chi è senza peccato scagli la prima pietra, quindi sì, con qualche difficoltà ma continuo a volerle bene che tanto poi basta un giorno in cui si presenta al meglio e tutto l'amore torna fuori prepotente e ostinato.
E di sera, quant'è bella, in quell'orario che a me sale la nostalgia, quell'orario primaverile in cui il sole non va via, e lei comincia ad accendere i suoi lampioni gialli e quelle case storiche che uno non ci crede che esistano case belle così, quelle case che si riempiono delle voci dei ritorni a casa, e ci senti le risate di cene con amici che ti viene voglia di scampanellare e dire "ehi, posso venire anch'io? porto il vino", e ci cammino dentro, su quelle strade con il porfido, i tram arancioni (ce n'è ancora qualcuno, con i sedili in legno, scomodissimi ma pieni di quella bellezza commovente del tempo che fu), i taxi che ora sono bianchi, i grattacieli che salgono e si illuminano e stanno lì a guardare questa città che cambia e cresce e pulsa e respira e fa rumore e ci sono io che ci cammino dentro con un ritmo che è il-mio-ritmo-di-Milano, come se lei mi imponesse una musica su cui ballare e io non potessi fare a meno di.
Io non abito più a Milano per una serie di motivi che, però è lei la mia città, quella che quando dici Milano scatta subito la domanda "ma Milano, Milano?", sì, Milano Milano, è lei la mia città. A prescindere.
Ci ballo dentro Milano e sono più bella.
Ci ballo dentro Milano e lei è più bella per me.
Io ve lo auguro di innamorarvi di una città, che è qualcosa di più di un "posto", è un insieme di icone, di simboli, di colori-musica-atmosfere che vi fanno pensare, sempre, oh, davvero, tutte le volte, ecco, "casa".
È bello.