12 marzo 2012

ET telefono casa anch'io

Sorrido sempre quando un bambino mi parla.
Mi si avvicina N. la migliora amica di Lee: "Lara, sai una cosa? Sabato vado a comprare le scarpe con il tacco". Il sorriso mi si sgretola sulla faccia. Credo che si senta anche il rumore. Perché io non riesco, mai e con nessuno - figuriamoci con i bambini, a dissimulare cosa sto pensando in realtà. Abbozzo un "ah", mentre Roo mi salva in corner combinandone una delle sue, una di quelle belle grosse che richiedono il mio intervento.
Ci avviamo per strada verso la gelateria del dopo-asilo e Lee tutta imbronciata torna all'attacco con il tema preferito dell'estate scorsa: "Quest'estate mi compri il costume con il reggiseno?" "No". Io non sono una che sta molto a discutere, sono cresciuta con questa cosa che quello che dicevano gli adulti doveva essere preso alla lettera, chiedere perché era lecito, ma la risposta il più delle volte non arrivava o arrivava sotto forma di "perché è così". Non c'era altro da aggiungere.
E io sono contenta di un rapporto più confidenziale, più aperto coi bambini, ma non fino ad arrivare al punto che questi possano mettere in discussione qualsiasi cosa venga detta. L'adulto, il genitore per la precisione, è quello che si può permettere i sì e i no senza dover necessariamente dare una spiegazione che molto probabilmente il bambino non ha ancora gli strumenti per capire. Quindi quando Lee chiede "Perché no?" la mia risposta, che non può affondare le radici nella argomentazioni con cui poi investirò Lui al suo rientro, si limita ad un "Perché a me non piace e perché finché non hai le tette il reggiseno te lo scordi" (omettendo "se sei come me dovrai attendere una vita").
Ovviamente arriva puntuale il classico "Ma la mamma di N. glielo compra". Non mi sorprende. "Il mondo è pieno di ingiustizie".

Frequentiamo molti compleanni, per lo più femminili. Il regalo più gettonato di questi tempi è il kit per la mini ricostruzione delle unghie, con tanto di micro-unghiette finte da applicare su quelle vere e colorarle a proprio piacimento. Ripeto: il-kit-per-la-ricostruzione-unghie. E i trucchi. E i bijoux. Non voglio necessariamente demonizzare un gioco. È la cristallizzazione di un ruolo, di quelle che devono essere sempre belle e curate e soprattutto grandi - molto grandi - a non starmi bene. Anche noi mettevamo le scarpe col tacco di mamma, e facevamo finta di essere grandi. Ma, non lo so, mi sembra che ci fosse di base un'ingenuità, una semplicità, una totale mancanza di malizia che adesso non riesco a cogliere.
Anche perché poi hai l'impressione che non è che con questi giochi ci si divertano poi tanto. La riprova l'ho avuta alla festa di compleanno di Lee, a casa nostra. Quintali di Barbie abbandonate in giro a favore del trenino di Roo, del kit Black&Decker di Lee (sì, di Lee), della valigetta del dottore, usando il trapano, la sega circolare, il martello e il cacciavite come fossero strumenti da chirurgo (e Grey's anatomy ci ha insegnato che non è una cosa così strana, tutto sommato). Sai che palle fare le collanine, quando puoi riempire le chiappe altrui di punture o segare un braccio?

Passeggiata per tornare a casa. Si passa davanti ad un negozio che fa tatuaggi, dove G. - altra amica di Lee - attacca a piangere perché lei vuole fare il tatuaggio vero. Quattro anni. Sua mamma le dice "più avanti".

Cioè, c'è qualcosa che mi sta sfuggendo, c'è qualcosa che sto sbagliando io, c'è qualcosa che dovrei accettare, o c'è effettivamente qualcosa che non va? Mi sento come se fossi atterrata da un altro pianeta e sono quella verde con le antenne-le pinne-la coda e parlo una lingua che nessuno capisce. Beam me up Scotty, riportatemi sul mio pianeta, che questo qui non mi piace per niente.

6 commenti:

  1. Be' il passaggio dal kit per unghie al "piccolo chirurgo" ai tacchi al tatuaggio mi sembra abbia un denominatore comune: la voglia di fare cose da grandi, di vedersi addosso una maturità che chi ha il potere (cioè i grandi veri) non riconosce.

    A G. non interessa il tatuaggio in sé, quanto il fatto di averlo, per due motivi:
    1) la possibilità di farlo, che implica la libertà di scelta, un "potere d'acquisto"
    2) avere un simbolo che agli altri, soprattutto ai coetanei, la mostri più grande, perché fa una cosa da grande.

    C'è un bel passaggio su "Acciaio" di Silvia Avallone in cui una delle protagoniste sta per avere il suo primo rapporto sessuale e il ragazzo capisce che per lei quell'atto non è di amore e neanche di curiosità, ma di "status", come tutte le cose che ha sempre voluto imparare a fare prima delle altre: andare sui pattini, fumare, guidare prima il motorino e poi l'auto.

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    1. Ma io è proprio questo che condanno. L'incapacità di dire i no che mettono i bambini nella condizione di vivere la loro età in quanto tale, non come attesa o peggio ancora specchio di quando saranno più grandi. Non mi piace. Mi spaventa. Crea motivi di paragone tra bambini che non ci dovrebbero essere. Non mi piace. Ah, l'ho già detto?

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    2. Sì, capisco. Inoltre diventa un confronto non solo tra bambini ma anche tra genitori.

      A volte essere più maturi può venire dal sentirsi diversi dai coetanei, che hanno l'oggetto che tu vuoi e per cui mamma-Lara dice no.

      Si cresce non solo per vedersi negato quello che si vuole, ma anche quello che hanno tutti gli altri, o almeno spero. Io mi sono sentito outsider facendo cose che piacevano solo a me e non facendo quello che piaceva agli altri. Ancora oggi mi succede, spesso. Per dire: non ho molti amici che leggono.

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  2. Lara, io credo che siano scene agghiaccianti quella del tatuaggio "rimandato" e del kit per le unghie. credo però che il mondo di divida in: mamme che vorrebbero che le figlie facessero le veline e mamme che "anche no, grazie". io continuerò a perseguire la seconda strada, che nel mondo di oggi è la più difficile, ma la sola giusta.

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    1. Eh lo so anch'io Marta. Ma che fatica. Mi basterebbe avere un'alleata, una, me la farei bastare.

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  3. ti credo! è che siamo poche e sparse per il mondo...

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