5 marzo 2012

...solo che andavamo via di schiena e incontro a chi insegneremo quello che noi due imparammo insieme (e tutto il testo)

Ci si incontra così per caso, in una giornata di quelle in cui il vento ha spazzato il cielo e il sole sembra farcela davvero. Entrambe in giro per commissioni, trafelate, entrambe con quel profumo che ti lascia addosso il vento e con bambini che scappano in ogni direzione. Ci riconosciamo e sorridiamo, la voglia di salutarci e parlare un po'. Non siamo ancora vicine e ci stiamo già misurando - è più alta-magra-bella di me? Noi donne siamo fatte così, dai sedici anni in poi, inconsciamente o meno misuriamo le altre per capire come sarà la battaglia e cerchiamo piccole sicurezze nelle solite quattro cose elementari. Cominciamo a parlare, che è davvero una vita che non ci si vede, e quella bambina con gli occhi azzurri e grandi adesso ha due anni e io non la vedevo, appunto, da quasi due anni. Ora che è più grande si vede chiaramente: ha la faccia di suo padre, è incredibile vedere la somiglianza di qualcuno che hai amato tanto in una piccola sconosciuta che ha così tanto di lui pur essendo altra.
Io ho di fronte la moglie di quell'amore su cui a vent'anni avrei scommesso tutto. Sono stati due anni e mezzo, un battito di ciglia in pratica, e poi siamo andati avanti entrambi. E menomale.
Mi racconta di lui, parlandomene come se io non lo conoscessi mentre io combatto forte con me stessa per non risponderle con un "lo so" che non farebbe bene a nessuna delle due. Mi racconta spontaneamente della loro vita, io no, io sono introversa (sì, ho un blog, ma non torniamo su quella storia che qui dentro c'è la mia vita, eh). Mi dice com'è vivere con lui, com'è sempre stato con lei, e lì sì che ho l'impressione che stia parlando di un altro. È ovvio, chissà chi è diventato in questi anni al netto di noi, io sono così diversa che stenterebbe a riconoscermi, faccio fatica anch'io certi giorni.
Lei continua a parlarmi con quelle che sembrano essere le parole di lui e io mi trovo lì con la sensazione di chi sa benissimo come finisce ogni frase appena iniziata. Le sue parole mi suonano stranamente familiari, hanno il sapore di quelle che io gli dicevo, invano, una vita fa, per cercare di convincerlo a trovare un punto di incontro tra i nostri due caratteri - il giorno e la notte.
Senza mai riuscirci.
Identiche, testuali, parola per parola.
In differita di una decina d'anni deve aver capito il senso di quelle cose. E non solo l'ha capito, l'ha anche messo in pratica. Ma forse è solo frutto di quel genere di interpretativismo di cui sono maestra, quello del trovare significati anche laddove non ce ne sono, non lo so. So che noi non c'eravamo più.

È strano avere l'impressione di aver lasciato un'impronta nell'anima di qualcuno solo per farlo combaciare meglio con chi sarebbe arrivato dopo. Giochi di equilibri, chiaro, del resto è così per tutti. Le nostre anime sono tutte piene di impronte altrui che ci hanno in qualche modo dato dal forma. Chi a suon di carezze, chi metaforicamente a spinte, schiaffi, calci. Non c'è modo di restare monolitici, impassibili, incolori, stabili, di fronte alla vera condivisione della vita con qualcuno.
Gliel'ho apparecchiato io quell'uomo perfetto-per-lei che ora le vive accanto e lei non lo sa. Non c'è modo che lo sappia, lei lo ha sempre avuto accanto in questo modo, mai diverso, e se davvero lui ha fatto sue le cose che gli dicevo io, non sarà certo stato lì a tributare medaglie e a distribuire i meriti di questa maturazione. Non lo si fa mai. Eppure quanto ci ho pianto, sudato, lavorato, quanto impegno, quanta fatica. Ma quando si arriva dall'altra parte, quando si va oltre, non si sta lì a distribuire grazie a chi ci ha traghettato, a chi c'era a sfinirci, a parlarci, a piangerci accanto, a viverci di pelle, ci raccontiamo tutti che siamo il frutto delle nostre scelte, come se le scelte si potessero fare davvero al netto di tutto, no, non è mai così, eppure niente, si va avanti, spalle contro spalle e ognuno per la sua strada, e chi c'era un attimo prima e non c'è più non conta più niente. Ognuno preferisce raccontarsi di essere l'artefice di qualsiasi cosa, cambiamento, evento, decisione della propria vita.
Quanti grazie dovrei distribuire in giro io, allora? E non lo faccio, mi racconto che la mia vita è per forza frutto del mio lavoro, del mio impegno, delle mie scelte. È giusto, è il modo per rimanere sani di mente, pensare che l'unica cosa che ci ha fatto arrivare dove siamo sia il libero arbitrio, nostro - non altrui.
Ma se c'è una cosa buona, una, l'unica forse, in me, è che io non dimentico niente. Mai.

Il sennodipoi mi trova felice di dove sono ora, eppure vorrei almeno un grazie.
Le pretese.
Il bel carattere.
Quelle cose lì.

Un sorriso, ripensando a quanto eravamo piccoli, io e lui, e ingenui pensando che sarebbe potuta andare diversamente da com'è poi andata.
La saluto, un bacio a quella bimba dagli occhi blu del suo papà, solito respiro profondo.
E avanti.

2 commenti:

  1. Fantastico post, Lara, con un finale da "O santo cielo". Condivido.

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  2. Eh, Baglioni. Non so come faccia, ma racconta sempre le nostre storie. Un bacio.

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