2 aprile 2012

Lei

Da che io la ricordi aveva sempre avuto i capelli bianchi. Ci mostrava le sue foto da ragazza, quelle foto in nero e seppia, con il bordo zigrinato e quelle scritte in corsivo tremolante sul retro con nomi e date, per farci vedere, per farci capire che anche lei era stata giovane e sorridente e, davvero, molto bella. Non era sempre stata una nonna, "capite bambini?", aveva avuto i suoi sogni di ragazza che si sono infranti con la morte del marito in guerra mentre lei già aspettava mio padre. Gli avrebbe passato quegli occhi chiari che poi sarebbero arrivati a me e, poi, a Roo.
Aveva vissuto la miseria, con quel desiderio di rivalsa e di ascesa sociale che però non andava a braccetto con altrettanta voglia di lavorare. Mi ricordo le sue storie, che ascoltavo seduta sull'ottomana di quella casa coi pavimenti a piastrelle esagonali in cotto e sempre qualche gatto sulle ginocchia, mentre mio fratello annuiva e andava all'ultima pagina di famigliacristiana per leggere le barzellette. Erano i suoi racconti fiorentini, di quella città splendida in cui lei era cresciuta, in cui aveva studiato (fino alla quinta elementare - un vanto, ché tutti gli altri si fermavano alla seconda), in cui avevano provato a correggerle quell'assurda ostinazione di scrivere con la mano sinistra, da cui derivava la sua scrittura stentata, tracciata con la mano che non era la sua mano per scrivere; il tratto tremolante, le lettere allungate per bene con tutti gli occhielli a posto, che si studiava calligrafia allora, e questa era una cosa che le ho sempre invidiato, quel corsivo elegante che è identico a quello di tutta la sua generazione.
Mi raccontava di una sorella gemella che era morta da piccola e di vestiti da ragazzine piccolo-borghesi.
Bugie.
Mia nonna inventava la sua storia, riscrivendola di volta in volta con nuovi particolari, dipingendo una vita che era stata avara, con i colori di quella che avrebbe voluto. L'ho scoperto a quattordici anni che non è mai stata piccolo-borghese e che non aveva mai avuto una gemella e a raccontarmelo fu suo fratello, ormai anche lui nonno, attraverso un libro che aveva scritto a mano e in cui raccontava la loro infanzia di stenti ma comunque felice. Il contorno toscano, prima Arezzo poi Firenze, la povertà, la fame, l'alluvione, c'era tutto in quel libro, se ne stava lì nero su bianco come un tradimento di tutto quello che mia nonna voleva rimuovere per inventarsi una vita in cui lei era sempre stata benestante e con i vestiti e i capelli curati.

Le rimase questa cosa, quella delle "signorine bene" e in un destino che le aveva regalato solo nipoti maschi tranne me, non le pareva vero che con tutte le belle bambine di pizzo, crinoline e capelli lisci, le fosse capitata proprio quella bimba paffutella, sempre sdraiata in terra coi pantaloni di velluto a costine e le clarks a giocare con i balocchi del fratello.
Mi criticava spesso, mi diceva che le signorine bene non giocavano così, non mangiavano così, non si vestivano così. Mio padre la redarguiva, lei alzava gli occhi al cielo e mi offriva un cioccolatino al liquore per fare pace.
Lei che la fame doveva averla provata davvero usava il cibo come metro del benessere ("mangia che devi essere in carne"), ma nello stesso tempo criticava un po' delusa le mie guance piene e rosse per l'ultima corsa fatta, ché l'incarnato pallido era molto più fine e soprattutto "le signorine non corrono così".
Mi comprava vestiti che non avrei mai messo, se non ai matrimoni e comunque di malavoglia.

Ero sempre sotto la sua lente di ingrandimento, ma mi voleva davvero bene.
Eravamo a nostro modo complici, io e lei. E nel furore adolescenziale in cui criticavo tutto e tutti, non le facevo mancare le mie rispostacce, la cresta alzata, le spallucce e quello sbuffare che anche a lei veniva benissimo. Ma poi mi faceva la cioccolata e ci trovavamo a ridere per i verbi che lei usava spesso e io non conoscevo ancora, o per i nomi che storpiava (ci sarebbe da scrivere un post solo su questi) e le parole che inventava. E mi chiedeva dei ragazzi e perdeva il filo ogni volta, volubile com'ero, non faceva in tempo a imparare un nome che ero già passata ad un altro.
Ci faceva la torta tutte le volte che veniva a pranzo, la ciambella o quella di mele, e cascasse il mondo la domenica sera eravamo a casa sua; mi ricordo Paolo Valenti in sottofondo, mio padre che guardava i risultati delle partite, mentre noi mangiavamo la minestrina in brodo "ché vi pulisce bene", ma certo.

Mia nonna se n'è andata molto prima di andarsene davvero. L'ha presa a braccetto l'alzheimer portandola a spasso in un tempo che non era più quello reale, che se non fosse il dramma che è ci sarebbero parecchi aneddoti divertenti da raccontare. È strano vedere scomparire qualcuno dietro i propri occhi, quella stessa faccia che due mesi prima ti ascoltava parlare e che non è più in grado di riconoscerti, di sapere in che anno siamo, di capire che non c'è più quella guerra, di pensare che i suoi figli sono ormai tutti sposati. Spietato per chi sta di fronte a una persona amata vedere che c'è questa cosa che un po' alla volta le cancella i ricordi, rendendo confuso tutto quanto, innanzitutto se stessa.
Non ci pensavo allora, come potevo?, avevo più progetti che ricordi, e se anche li avessi persi non mi sarebbe sembrato questo grande dramma. E invece, dannazione, siamo quello, i nostri ricordi, la nostra storia, le cose e le persone che riusciamo a pensare e che aggiungono colore alle esperienze, ai giorni andati, alle imprese compiute. È proprio stronza quella malattia che ti porta via tutto questo, che ti porta via a poco a poco tutto ciò che sei. Lei non se ne rendeva conto, viveva in una bolla di tempo indefinita dai contorni che sfumavano e di cui non restavano tracce forti, una bolla comunque serena anche se in un modo "sospeso", ma per noi, quelli che le volevano bene, era dura.

Mia nonna mi ha raccontato mille cose prima di andarsene, molte inventate, molte colorite, molte erano solo sogni, me le tengo lì tra i ricordi, insieme al rivestimento della sua ottomana, ai suoi gatti, la stufa a legna, le merende coi panini col prosciutto che solo lei -vuoi un goccio di vino? -ho sette anni, nonna -appunto - i ninnoli assurdi di cui aveva piena la casa e quelle fotografie dal bordo zigrinato in cui era davvero bella, sorrideva e guardava avanti verso tutta la sua vita da vivere.
Oggi sarebbe stato il suo compleanno.

3 commenti:

  1. Sai suonare, non c'è che dire.
    Adoro le nonne, soprattutto le 'nostre', figlie di un'epoca cruda e misera. Magari un giorno, tra un silenzio e l'altro, ci racconteremo aneddoti fratelli della stessa storia.

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  2. ... c@zzo Lara... mi hai fatto piangere...
    sei TROPPO... <3

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  3. i panini al prosciutto...che così nessuno mai!

    mi manca molto la mia nonna, me la sogno ancora, anche se non c'è più da sei anni.

    grazie

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