28 giugno 2011

88 passi sulle punte

"Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere". (A. Baricco - Novecento)

Io non ero infinita su quei tasti. Avrei tanto voluto esserlo, unicamente per non deluderla, ma non ci riuscivo. Andavo su e giù con le dita agili lungo quella tastiera, a cercare di comunicare un mondo interiore che ancora non aveva una forma chiara. Ma del resto, quando.

Ogni tanto ci riuscivo.
Molto più spesso no.

Era strana la situazione. Dovevo metterci "peso", io che il peso ho sempre cercato di toglierlo, sempre, da qualunque cosa. Mi muovevo su quei tasti come una ballerina mancata, leggera, volatile, là dove avrei dovuto metterci tutta me stessa, tutti i miei chili, le mie braccia forti, il mio essere "corpo".
La musica non è aria.
Quando la suoni la musica è soprattutto fisicità. Non è così eterea come uno crederebbe. Perchè se non ci sei tu, con le tue mani, braccia, gambe, corpo, a schiacciare su quei tasti e quei pedali, non esiste alcuna musica. E se alla fine di quattro ore alla tastiera ti fanno male le dita, e la schiena non la riesci più a tenere dritta, la sensazione "fisica" di musica è palpabile.
E come conciliare allora il fatto di voler essere leggera e invisibile con il fatto di dover suonare, rendere note ciò che sei, che senti, che respiri?
Io ci provavo a rendere parola quei puntini neri fitti fitti che se ne stavano adagiati sulle pagine ingiallite dei libri sul leggio. Ci provavo, ma ci riuscivo solo se mi si dava anche lo spazio per spiegarmi a parole.
"Non parlare, suona".
(Non parlare? A me? Eh?)

Lei sapeva leggermi. E anticiparmi.
Sono andata a lezione da lei per 15 anni, una volta alla settimana, due nei periodi di concerti e concorsi.
Lei, così insospettabile nel suo essere una vera artista, al netto di tutti gli orpelli artistoidi o presunti tali di cui si fanno vezzo quelli che di arte parlano ma a stento "fanno".
Lei, così materna e cruda, insieme.
Lei, capace di capire dal mio tocco sui tasti cosa mi fosse successo dentro, felice, triste, disperata, a cacciare due dita nel punto tra le scapole in cui io, da sempre, accumulo tensione. "Rilassa".
Avrei voluto essere perfetta, al pianoforte, per lei. Perchè lei era così straordinaria da meritare un'allieva perfetta, e quell'allieva avrei tanto voluto essere io.
Ma mi mancava il carattere. La tempra. Lo spirito di sacrificio e di lavoro duro.
Anni passati a destrutturare vecchi difetti di impostazione.
Anni passati a raccontare storie sottoforma di melodia. Allegra, straziante, straniante.

C'è tutto un mondo nei libri di pianoforte che è un peccato non saper raccontare. [Le sonate di Beethoven ad esempio sono un'opera omnia, un'enciclopedia, l'Iliade, l'Odissea, la Divina Commedia, tutto].

Però ho saputo leggerlo.
Lo so capire. Non lo saprei spiegare a qualcun altro, nel suo significato più profondo, ma comprenderlo sì, quello posso. È come saper leggere una lingua diversa, ma non saperla parlare, perchè la lettura e la conversazione viaggiano su registri cerebrali che non coincidono.
Saper leggere la musica: questo è un regalo meraviglioso che mi hanno fatto innanzitutto i miei genitori, quando all'ennesimo "voglio fare questa cosa" (tennis, pallavolo, ginnastica ritmica, artistica, danza, nuoto, sì in effetti ero un tantino volubile) hanno deciso di investirci e di credermi davvero.
Gliel'ho dimostrato con l'impegno e la costanza, chè 15 anni non sono proprio pochi e io a lezione ci andavo sempre, e ce la mettevo tutta.
Un regalo che mi ha fatto lei, che ogni volta trovava una chiave diversa per spiegarmi quelle cose, quelle più difficili, quelle storie che io ancora non capivo, ma poi.
Un regalo che mi sono fatta io, con l'impegno che ci ho messo per molto tempo.
Poi la vita.
Poi le scelte che prima o poi bisogna fare.
E la rinuncia spesso è parte di quelle scelte, del dover decidere quale strada delle mille intraprese nell'adolescenza vuoi che diventi la sola su cui camminare. E io non è che abbia mai deciso bene. Temporeggiavo e ruzzolavo qui e là, mentre facevo scelte che limavano il mio tempo e le mie possibilità "altre".
È ovvio che se ne esce più aridi. Io mi sono sentita così, svuotata, asciutta, inaridita, quando ho deciso che basta. E proprio perchè la musica è una madeleine di dimensioni epiche, ho dovuto eliminare ogni sonorità classica per molti anni dopo quella scelta. Per non parlare di quanto mi mancava lei.

Il mio pianoforte sta ancora lì a casa dei miei, nei suoi quattrometriquadri di ingombro, ad aspettare che le mie mani tornino a sfiorarlo. Io ancora non ci riesco. Troppo forte, troppe sensazioni, troppa gente che ascolta, troppa aspettativa "con tutto quello che hai studiato".
Per ora lo suonano Lee e Roo, oddio "suonano" non proprio, lo pestano senza rendersi conto di quante cose stiano lì dentro, in quella scatola nera, su quegli 88 tasti.
Un giorno, non so quando, domani o tra dieci anni, forse glielo spiegherò.
Magari a parole, magari suonando.
Davvero non lo so.
Vorrei solo che capissero che cosa speciale sia, ecco.

3 commenti:

  1. Lo capiranno, stai tranquilla...lo capiranno da come guardi il pianoforte, quello sguardo che dai alle cose che per loro natuta sono in attesa di un evento che le animi.
    Si chiederanno cosa sta aspettando quel cassone di legno...e tu glielo farai capire.
    Sarà bello. Molto.

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  2. Francesco, MA GRAZIE! davvero...

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  3. Sono senza parole. Non mi era ancora capitato di leggere delle parole che spiegassero così bene quello che sto vivendo.

    Oh sì, capiranno.

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