15 gennaio 2012

Il taglio sul ginocchio

Sono cresciuta in un condominio, uno di quei palazzi alti alti che erano quanto di più lontano dal sogno brianzolo dei miei genitori di una casa indipendente. Ma per me e mio fratello è stato il paradiso. L'intero complesso era costituito da due torri di otto piani più altre varie palazzine più basse e in ogni appartamento - e di appartamenti ce n'erano veramente tanti - c'era almeno un bambino.
Uno squadrone.
Gli spazi comuni comprendevano centinaia e centinaia di metri quadri di giardino, oltre ad una serie di portici al pian terreno di ogni palazzo perfetti per le giornate di pioggia. Il giardino, di quelli che al giorno d'oggi te li sogni, era ordinato, pulito, ben illuminato anche di sera, suddiviso da una serie di vialetti "ciclabili" e punteggiato di isole alberate con panchine in cemento dove chiacchierare, giocare, disegnare e dove da piccoli andavamo di nascosto a sbirciare i fratelli e le sorelle maggiori che si appartavano con i fidanzatini di turno - bleah, si baciano con la lingua (seee, vabbè...).
C'era un prato grande e visibile da ogni palazzo che dopo una serie di delibere in assemblea condominiale, e dopo la nostra occupazione spontanea, fu destinato al gioco dei bambini, quindi ufficialmente nostro. Era un quadrato d'erba con in mezzo una specie di griglia di cinque metri per cinque che serviva da sfiato per i box sottostanti, griglia su cui tutti abbiamo grattugiato le ginocchia almeno una volta al punto da considerare quel momento il vero ingresso nel mondocortile - il battesimo della grata.
Il tempo allora era diviso tra scuola e gioco, e dopo i compiti e la merenda si spariva in cortile a giocare con la certezza di trovare sempre qualcuno, se non proprio tutti. All'ora di cena le mamme si affacciavano a turno al balcone a gridare i nomi dei propri bambini - ancora un attimo ti prego! ho detto subito.
E poi giù ancora, in estate, finché non diventava buio, si accendevano i piccoli lampioni tondi e gli annaffiatoi automatici e casualmente ci finivamo dentro, inzaccherati dalla testa ai piedi "non so come sia potuto succedere, mamma, davvero" (ma certo).
Giocavamo a palla base, all'elastico, a pallavolo, a calcio con le porte segnalate dalle felpe di qualcuno, sempre insieme, maschi e femmine, e i pattini e le corse in bicicletta e nascondino-a-squadre perchè su una superficie così estesa non era possibile mettere una sola persona contro tutti (e il "liberatutti" non valeva mai). C'erano gatti da adottare e nutrire, c'erano spettacoli da preparare, e l'hulahop, le staffette e la corda da saltare.
C'erano i deboli che andavano difesi, c'erano quelli  che "se non mi dai il rigore porto via il pallone", c'erano i bulletti, le smorfiose, quelli che frignavano, quelli che cercavano di mettere ordine e tutti eravamo a turno un po' di tutto. C'era quella gestione indipendente da parte dei bambini, non abbandonati ma lasciati liberi di trovare una soluzione e di mediare a qualsiasi situazione.
Quando poi andavamo a scuola e c'era il bulletto di turno, ci trovavamo a gestire una cosa che per noi non era certo una novità, la fighetta, il prepotente, il piccolino da difendere, le alleanze da costruire e quelle da smontare. Il cortile ci aveva insegnato la socialità, le regole, il tempismo nell'alzare la cresta e nell'abbassarla,  la necessità di chiedere scusa o di pretenderlo, gestivamo una varietà di sentimenti e di situazioni che avevamo già sperimentato nel nostro microcosmo recintato, senza alcuna ingerenza degli adulti, senza neanche lontanamente pensare che qualche "grande" dovesse intervenire.
I tempi sono cambiati.
Sono cambiati i telegiornali e le notizie che ci danno.
Fatto sta che io non sarei in grado di lasciare Lee e Roo a giocare in un qualsiasi cortile senza averli sott'occhio ogni minuto. E la conseguenza è che loro vivono esclusivamente la socialità mediata dalle maestre all'asilo e quella sotto l'occhio vigile di mille madri-che-te-le-raccomando (categoria in cui mi inserisco a pieno titolo) del parchetto.
Ma mancherà loro sempre uno spazio veramente indipendente dove sperimentare l'offesa, l'esclusione, la parzialità, il branco, l'appartenenza, la diplomazia, l'alleanza temporanea per il raggiungimento di uno scopo comune fosse anche solo quello di fare sì di arrivare alla fine del pomeriggio a giocare a pallone senza che nessuno se lo porti via.
Credo sia una gran perdita, a maggior ragione se quello che hanno guadagnato è di fingere di giocare a calcio con una console in mano davanti alla tivù.

Di recente al matrimonio di un'amica comune, ci siamo ritrovati noi ex bambini del condominio, lontani, grandi,  tutti con le proprie vite apparecchiate o in fase di. Ci siamo sorrisi e abbracciati e guardati e abbiamo constatato la fine di quella confidenza spontanea a base di palloni e pattini a rotelle.
E poi ci siamo guardate, noi con le gonne svolazzanti più o meno corte, e l'abbiamo visto, quel segno, quello dell'appartenenza a quel periodo incantato, quel taglio diagonale sul ginocchio di ognuna di noi che testimonia "Io c'ero".
Un sorriso complice, e poi via.

7 commenti:

  1. Anch'io come te sono cresciuta in un condominio e si scendeva in cortile a giocare tutti i pomeriggi tra la primavera e l'autunno. E quante ginocchia sbucciate.
    I miei nipoti, pur essendo cresciuti nello stesso luogo, non se lo sono goduto allo stesso modo.

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  2. Dopo aver letto questo, mi chiedo perché non scrivi un libro, Lara.

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    1. L'Italia è una repubblica fondata sul romanzo nel cassetto. sarebbe il mio sogno, ma... non lo so.

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    2. Il problema dei sogni è quando li porti nel mondo reale. Scopri paure e ansie a cui non pensavi minimamente e finisce il bello dell'accidia.

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    3. E-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e. Oltre alla scoperta dell'eventualità del fallimento.

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    4. Una mia amica ha postato questa citazione:

      "Se ti fa paura, fallo con paura. Se non ti fa paura allora il tuo desiderio non è abbastanza grande."

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